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Channel: slavina – malapecora
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Abbi cura del tuo orto

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abbi cura del tuo orto

Abbiamo ancora bisogno di una campagna per promuovere l’uso del preservativo?
Noi pensiamo di sí.

L’Italia continua ad essere un paese dove il contagio da HIV ha un’incidenza medio-alta (4000 nuove infezioni all’anno)

Ci vogliono gesti

Avevo giá lavorato nel 2005 sull’idea di portare nello spazio pubblico un gesto cosí intimo e privato, legato alla dinamica dell’amplesso con un piccolo video che presentai al World Aids Day (evento organizzato da Peter Cramer e Jack Waters al MACBA – Museo di Arte Contemporanea di Barcellona)

Da allora sono passati alcuni anni e per me che vivo una promiscuitá sessuale serena e cosciente, il gesto di infilare un preservativo si è caricato di una valenza positiva incontrovertibile: considerato il campione statistico sperimentato ;) posso affermare che nel momento cruciale, l’assunzione di responsabilitá di un partner rispetto alla questione protezione è quasi sempre la premessa di un interscambio di qualitá.
Qualitá che vuol dire attenzione, coinvolgimento, impegno, rispetto… componenti essenziali di quella che io considero una bella scopata.

Eppure per molte persone, un gesto all’apparenza cosí semplice (anche solo preparare una pasta in bianco richiede piú tempo, impegno e abilitá – ed è una cosa che sappiamo bene o male fare tutti) continua a risultare scomodo e complicato.

Per questo, grazie all’interessamento e al contributo produttivo della Lila, abbiamo voluto riportare questo scherzoso esperimento socio-antropologico per le strade, proponendolo come campagna per la Giornata Mondiale per la Lotta contro l’AIDS.
Invece del terrore, componente abituale della comunicazione intorno all’HIV (Mettiti il preservativo!!! Sennó morirai!) abbiamo scelto l’ironia e l’invito in positivo (Mettersi il preservativo? Fa parte del gioco)

Abbiamo scelto di girare in una cittá del sud e una del nord Italia, constatando che purtroppo la reazione delle persone alle quali abbiamo proposto di prodursi in questa piccola performance rispecchia il pregiudizio (al sud è stato molto piú duro trovare delle persone che si prestassero spontaneamente al gioco).

In generale, le donne hanno risposto con piú ironia. Gli uomini si rifugiavano spesso dietro allo slogan un po’ ipocrita “Ho una partner fissa, quindi non lo uso”.
In un paese sessuofobico come l’Italia l’equivalenza condom – rapporto occasionale ammanta il preservativo di un’aura tra il peccaminoso e il moralmente riprovevole…
Sull’oggetto si trasferisce la paranoia puritana e quasi per rassicurarsi l’un l’altro la tendenza è ad abbandonarlo quasi in automatico, dopo le prime settimane, quando una relazione si stabilizza… come se fosse una prova d’amore.
(che non tiene conto del pericolo di aver contratto qualsiasi malattia sessualmente trasmissibile in relazioni precedenti e bypassa la necessitá di una pratica anticoncezionale condivisa – che non sia lo sport estremo del coito interrotto)

Il preservativo è utile e non c’è bisogno di usarlo in ogni momento dell’amplesso. Il sesso orale (quando non prevede un contatto diretto con lo sperma) non contagia – a meno che una delle persone coinvolte non abbia una carica infettiva molto forte (ovvero abbia contratto l’HIV da meno di un anno) mentre è noto – ma spesso ignorato – l’alto livello di rischio del sesso anale (soprattutto quando non viene accompagnato da una stimolazione e una lubrificazione amorevoli e accurate).

Proteggere se stessi e la/il proprio partner non è cosí difficile, in fondo.
Basta sottoporsi regolarmente ai test di verifica per l’HIV e le malattie sessualmente trasmissibili e imparare – qualunque sia il risultato delle vostre analisi – a proteggersi con la leggerezza e la consapevolezza che richiede lo scambio delle emozioni e dei fluidi previsto dall’amplesso.

Fare l’amore è bello.
Imparare a farlo rispettando se stessi e chi ci accompagna, è meglio
(e non è solo questione di igiene… ormai lo sanno anche i cetrioli)


il giovane gambero – un augurio per il 2014

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Per cominciare bene l’anno, con la giusta dose di entusiasmo e di commozione, vi regalo questa favola di Gianni Rodari che mia madre mi leggeva sempre quando ero piccola e che ho condiviso con gli spettatori e le spettatrici del Cabaret King Kong

Un giovane gambero pensò: – Perché nelle mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco. –
Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: Urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.
Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse: – State a vedere.- E fece una magnifica corsetta in avanti.
- Figlio mio,- scoppiò a piangere la madre, – ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene.
- I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare.
Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse : – Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua , il ruscello è grande : vattene e non tornare più indietro.-
Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo.
Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea.
- Il mondo va a rovescio, – disse una rana, – guardate quel gambero e datemi torto, se potete.-
- Non c’è più rispetto, – disse un’altra rana.
- Ohibò ohibò, -disse un terza.
Ma il gamberetto proseguì diritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto ad un sasso. – Buon giorno, – disse il giovane gambero.
Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: – Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua, piuttosto che rivolgermi la parola: Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio.-
Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava:
- Ho ragione io.-
E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino.
Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: – Buon viaggio! –

 

e buoni viaggi a tutti e tutte noi

roarrrr

l’arte di morire

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è una poesia di Roque Dalton, poeta salvadoregno dalla storia dolorosamente esemplare.
rivoluzionario, combattente, dopo aver dedicato la sua breve vita alla causa della libertá nel suo paese fu accusato di insubordinazione e ucciso dai suoi stessi compagni di lotta perché sospettato di essere una spia (non lo era: investigazioni degli anni successivi provarono che le accuse furono pilotate dalla stessa CIA).


EL ARTE DE MORIR


EL OTRO: Lo que Ud. quiere saber es, en cierto modo, el arte de morir.
EL HOMBRE: Al parecer es el único arte que hemos de aprender hoy.

FRIEDRICH DÜRRENMATT
 
Tómese una ametralladora de cualquier tipo
luego de ocho o más años de creer en la justicia
Mátese durante las ceremonias conmemorativas
del primer grito
a los catorce jugadores borrachos que sin saber las reglas
han hecho del país un despreciable tablero de ajedrez
mátese al Embajador Americano
dejándole a posteriori un jazmín en uno de los agujeros de la frente
hiérase primero en las piernas al señor arzobispo
y hágasele blasfemar antes de rematarlo
dispérsense los poros de la piel de doce coroneles barrigudos
grítese un viva el pueblo límpido cuando los guardias tomen puntería
recuérdense los ojos de los niños
el nombre de la única que existe
respírese hondamente y sobre todo procúrese
que no se caiga el arma de las manos
cuando se venga el suelo velozmente hacia el rostro
 
L’ARTE DI MORIRE
L’ALTRO: Quello che Lei vuole sapere è, in qualche modo, l’arte di morire.
L’UOMO: A quanto pare è l’unica arte che dobbiamo imparare oggi.

FRIEDRICH DÜRRENMATT
 
Si prenda una mitragliatrice di qualsiasi tipo
dopo aver creduto per otto o più anni nella giustizia
Si uccidano durante le cerimonie commemorative
di maggior grido
i quattordici giocatori ubriachi che senza conoscere le regole
hanno fatto del paese una deplorevole scacchiera
si uccida l’Ambasciatore Americano
lasciandogli alla fine un gelsomino in uno dei buchi della fronte
si ferisca prima alle gambe il signor arcivescovo
e lo si faccia bestemmiare prima di finirlo
si disperdano i pori della pelle di dodici colonnelli panciuti
si gridi un viva il popolo chiaro quando le guardie prendano la mira
si ricordino gli occhi dei bambini
il nome dell’unica che esiste
si respiri profondamente e soprattutto si provveda
a non far cadere l’arma dalle mani
quando il suolo si avvicinerà velocemente verso il volto.

 

ho letto questa poesia durante il Drag Freegan Cabaret, in un omaggio a Roque, all’insubordinazione nella sua forma piú radicale e definitiva e a tutte quelle persone che l’hanno scelta.

in un mondo in cui ingoiamo violenza fin dalla mattina – la prendiamo insieme al caffé – il suicidio è una via d’uscita dignitosa che ho imparato ad accettare non come una resa, ma come un gesto di libertá estrema.
lo dico dopo qualche anno di lacrime versate su un’assenza che mi sembra ancora insopportabile ma che sono arrivata ad accettare.
lo dico perché un lutto recente m’ha portato a riflettere ancora sul tema e a rivivere la sofferenza rinchiusa nella domanda – cosí delicatamente e decisamente posta da un amico colpito nel profondo da questa perdita
“Come ho fatto a lasciarti andare?”
è il tarlo che corrode la coscienza di chi resta. ci torni per mesi, anni.
un pellegrinaggio incessante ti riporta in tutti i luoghi della memoria in cui pensi che avresti potuto e dovuto fare meglio, nei giorni in cui non hai trovato il tempo, in abissi nei quali riconosci anche tu di aver pensato per piú di un attimo a una soluzione che ti togliesse dagli impicci di una vita che a volte è un gioco troppo duro, troppo faticoso, inaccettabile.

il dolore si espande, brucia e morde ma alla fine fiorisce e prima o poi riesci a darti pace e a perdonarti.
perché un tuo abbraccio nel momento decisivo forse non avrebbe cambiato niente, perché anche se avessi trovato il tempo, la forza di andare avanti non si condivide e non la puoi prestare e nemmeno regalare.
perchè, come mi disse una persona saggia nei giorni del dolore e del senso di colpa, era un po’ presuntuoso da parte mia, pensare che avrei potuto cambiare qualcosa.

eppure è certo che qualcosa possiamo fare, noi che ancora abbiamo la vita tra le mani e qualche carta da giocare.
aver cura dei nostri spazi facendoli accoglienti guardandoci a vicenda con amore quando riconosciamo il disagio; costruire una rete di affetto viscoso fatta di attenzione e cura, non delegando tutto alle strutture di famiglia e coppia.

non dobbiamo aver paura di volerci bene e di dircelo, ogni tanto.

e scusate se sono breve e banale.
era solo un modo per dirvi che Vi voglio bene.

Pornoterrorismo in Italia!

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il libro Pornoterrorismo sta per essere finalmente pubblicato. non è stato facile e neanche breve, ma chi la dura la vince ed eccoci qua a chiedere il sostegno della comunitá queer, pornocuriosa, transfemminista, degenerata nonchè ai piccoli nuclei pornoterroristi sparsi per il Belpaese (sappiamo che ci siete!)

la casa editrice che ha avuto il coraggio di affrontare questa sfida è molto piccola e non puó permettersi di sostenere le spese di un tour promozionale, necessario alla diffusione dell’opera e appena sufficiente al bisogno che ha il nostro paese di esperienze che spingano oltre la soglia del comune senso del pudore rimettendola in discussione.
(per me le canzoni di Arisa sono indecenti e rappresentano un modello di donna cosí meschino e rassegnato che offendono la mia intelligenza. perchè una soglia del senso dell’intelligenza comune non esiste mentre invece un corpo nudo di per se’ da ancora scandalo? ma vabbè, non divaghiamo, era giusto un esempio)

COSA FARE PER SOSTENERE IL GIRO D’ITALIA PORNOTERRORISTA?

per prima cosa, partecipare al crowdfunding!

è abbastanza semplice, ma zia Slavina ve lo spiega, se è che non avete mai partecipato a una campagna di sostegno dal basso di un’operazione culturale (non è mai troppo tardi per incominciare :) e ricordatevi che per le persone che creano fuori dai meccanismi del sistema questo tipo di supporto è spesso essenziale)

aprite la pagina di Verkami.
sulla colonna di destra ci sono, impilati l’uno sopra l’altro, i contributi e le ricompense che il progetto destina alle persone che lo supporteranno.
scegliete che tipo di donazione potete e vi va di fare e cliccateci sopra.
vi si chiederá di registrarvi tramite Facebook o con una mail e uno username che potrete scegliere – operazione necessaria perchè chi promuove la campagna possa avere un contatto diretto con voi quando – una volta chiusa la campagna con successo – vi verrá recapitata la ricompensa (oltre a quello Verkami ogni tanto manda delle mail informative sui progetti in corso)
una volta registrate, vi si chiederá il numero della vostra carta di credito o debito o postepay etc.
i soldi non verranno sottratti automaticamente, ma solo a conclusione della campana e solo e solo se la campagna avrá raggiunto il suo obiettivo economico (la cifra che appare in alto, in quella specie di termometro che misura la partecipazione)

una volta compiuto questo primo passo, potete comunicarlo al mondo tramite i vostri socialmedia di fiducia (o sfiducia), invitando i vostri amici e le vostre amiche a fare altrettanto ;)

nella pagina del blog di Diana dedicata alla tournè italiana verranno comunicate le date e i luoghi in cui il libro verrá presentato (e dove veranno distribuite le ricompense). se potete, essiateci – io pure in qualche caso cercheró di esserci :)

nel caso che non possiate essere fisicamente presenti, le ricompense vi verranno recapitate dove preferite.

(questo è un post di servizio – perchè Slavina è un nome che ho scelto non a caso ;) e visto che la campagna stenta a decollare e che qualche amica non aveva chiaro il meccanismo di partecipazione. se avete altri dubbi o domande, fatele!)

e… dai dai dai!

mi cuerpo: de zona de conflicto a territorio de placer

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pequeño monologo que presenté al Cabaret Una alegria pa’l cuerpo organizado por Les Atakas

cc miriam cameros
(imagen de Miriam Cameros)

Nuestros cuerpos están construidos socialmente como fronteras y, aún deseandolo mucho, es bastante difícil transformar algo que nos enseñan a percibir como límite en un puente que nos conecte entre nosotras.
Esto es lo que yo siempre he deseado hacer. Y aunque al mirarme – con lo buena que estoy, vamos – nadie lo diría, tengo que confesar que no ha sido fácil.

MI CUERPO, MI CUERPO, MI CUERPO, DONDE YO MANDO!
Esto no lo digo yo, es una frase de la Pornoterrorista y cuando la dice ella, yo me lo creo.
La verdad es que me ha costado bastante trabajo sentirme dueña de mi cuerpo y aunque tampoco dueña es una palabra que me guste, porque el cuerpo es mucho más de una cosa que nos pertenece.
Es la primera interfaz que nos pone en comunicación con el mundo y que por esta razón intentamos llenar de signos que comuniquen quienes somos y queremos ser – y que a veces, no obstante las mejores intenciones, significa a pesar nuestro.
No hay fucking manuals ni tutoriales de youtube que nos enseñen como utilizar esta herramienta…

El cuerpo es un campo de batalla que a veces nos cuesta una vida entera convertir en un campo de juegos.

Yo, de pequeña, siempre fui demasiado grande. No era de estas niñas menudas y delgadas que los adultos amaban coger en los brazos. Era siempre la más alta entre mis compañeras y sufria mucho por el hecho de ser considerada grande a partir de la primera mirada.
Yo me sentia pequeña – porqué de hecho, lo era – y me hubiera encantado ser llevada en los brazos, lanzada en el aire, considerada una cosita que se merecia todo el cariño y las gilipolleces que – lo descubriria con los años – tanto hacian sufrir mis amiguitas bajitas (que a veces estaban hasta el coño de ser tratadas como cositas)

La vida como cuerpo se configura muchas veces así: queremos ser como no somos y envidiamos a las otras cosas que nos parecen super chulas solo porque no las tenemos.
Me topé violentamente con esta paradoxa cuando me explotaron las tetas.
Fue un hecho repentino y casi sobrenatural. Un día me fui a dormir sin tetas y el día después me levanté con dos melones de mucho cuidado.
Mis tetas fueron causa de la mayoría de los traumas de mi adolesciencia. Siempre llegaban unos dos minutos antes que yo.
Pero casi mas trágicas que las miradas pesadas de chicos y señores, era la incredulidad de mis colegas: Pero, como que no te gusta tener tetas? Le resultaba incomprensible mi rechazo a una parte del cuerpo que ellas deseaban y cuya falta le hacía blanco y punto de mira de las tomaduras de pelo de los chicos.
Los adolescentes son muy crueles y suelen apuntar algunas partes del cuerpo – las que le resultan fuera de lo que consideran normal – para atacar y ofender.

Mis espaldas anchas y fuertes, en los años del colegio, me hicieron ganar el apodo de TRANS. Es algo que ahora recuerdo con cariño (y hasta con una pizca de orgullo…) pero a los 15 años que tus amigos digan entre ellos que no es posible que seas una mujer porqué tiene demasiados músculos en las espaldas es bastante fuerte. Y puede herirte.

Experimenté varias veces la incomodidad de un cuerpo fuera de los estandares de mis deseos. Lo peor, fue cuando empezé a enrollarme con las chicas.
Los primeros tiempos me daba mucha verguenza implicarme físicamente con chicas que fueran más bajitas que yo. Le llamaba Complejo de Godzilla a esta sensación de encontrarme demasiado grande con respecto a las medidas de los cuerpos de las otras. Con los hombres siempre me había resultado más fácil sentirme “la pequeña” y volver a satisfacer esta gana de que me llevaran en los brazos que tenia desde la infancia.
La primera vez que fui yo a levantar a una para follarla, entendí que era agradable y deseable cambiar las cartas en la mesa, y que las dimensiones y el rol de pequeña o grande no eran, al fin y al cabo, lo importante.

Al borde de los 40 he llegado a querer mi cuerpo incómodo por lo que es. Llegada a la edad en que tendría que preocuparme mucho por las arrugas, cuando los pechos ya han empezado su inevitable caida y teniendo celulitis hasta en la barriga, me siento más guapa y mas libre que nunca. Libre de enseñar, libre de esconder, de depilarme las piernas y de enseñar bigote, de disfrazar la guerrera de zorra y la zorra de persona seria. Y viceversa.
Me siento libre, linda y loca.
Y a veces me siento un tio.
Pero lo mejor de todo es que este cuerpo, ahora, soy yo.

Piuttosto che star soli (Con tal de no estar solos) di Ana Elena Pena

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lei è la grande Ana Elena Pena.
in questo blog ho giá parlato di lei ma non mi stanco mai di farlo: credo che sia una delle persone piú geniali e talentuose che ho avuto la fortuna di incontrare nella vita… e (come stupirsene?) non ha il successo e il riconoscimento che merita.
non in ambito mainstream, almeno.
è una regina dell’underground valenciano e come tutte le vere artiste si deve un po’ arrangiare per vivere (non so che mestiere fa ora, ma è una che ha collezionato parecchi lavori, piú o meno di merda, per pagarsi l’affitto)

peró non pensiate che sia una di quelle che si piangono addosso o che s’amareggiano riversando sul prossimo (e sulla prossima) la loro insoddisfazione: la precarietá di Ana Elena è solare, sorridente, vittoriosa.
ai margini si puó vivere con dignitá e allegria – e continuando a produrre cose meravigliose (a proposito, date un’occhiata al suo negozio online)

al cabaret Transvalentino, per dir male dell’amore che ci fa male (quello che prima di concederlo a noi stessx cerchiamo in qualcunaltrx) ho letto una sua poesia, che avevo tradotto per voi per l’occasione.
la condivido oggi, sperando che un giorno esista in Italia un pubblico degno della sua delicatezza velenosa, della sua sensibilitá giocosa, della sua allegria mortale.

AnaElenacolibrí

Colibrí – di Ana Elena Pena

Piuttosto che star soli

Piuttosto che star soli
andiamo con pazzi, con idioti ed ubriachi,
con donne vuote o di dubbia morale.
Mentiamo ai genitori,
giuriamo invano,
rischiamo la pelle e ci giochiamo i nostri sogni.
Attraversiamo la strada a occhi chiusi
con il primo che ci dá la mano.

Piuttosto che star soli
montiamo una grande farsa che chiamiamo AMORE
(cosí, in maiuscolo)
Tirando fuori conigli morti da un cappello a cilindro, mischiando le nostre carte con l’inganno e facendo trucchi scarsi davanti allo specchio
per non sbattere il grugno contro la realtá
e allontanare la paura
di rimanere soli.

Perché, per non esserlo, o per non sembrare che lo siamo
facciamo la fame, sperperiamo denaro,
sentiamo senza ascoltare,
abbracciamo senza accogliere
e ci trasformiamo in automi disperati
dimenticando quanto è bello sedersi ad aspettare che le cose, semplicemente, succedano.
L’odore di gelsomino delle notti d’estate e la scoperta inattesa di qualcosa di autentico, che ci sorprenda alla sprovvista, privi di artifici, disadorni, disarmati e tranquilli. Liberati di tutto ció che pesa e schiavi dell’evanescente, dell’etereo…

Lasciarsi andare…

Peró piuttosto che star soli
anche solo per un momento
continuiamo a cercare e continuiamo a fingere.
Trucchiamo quel che si vede e quello che anche no,
per il timore che scoprano i nostri difetti
e la fragilitá che si nasconde dietro di essi.
C’incalzano l’abbandono, l’angoscia e la fretta…
di modo che ci divora la notte e ci sorprende il giorno
quasi sempre nel luogo sbagliato,
dove un silenzio scomodo
(e un dolore nel petto)
ci rimprovera una volta e un’altra ancora
tutte queste stronzate che facciamo,
le une e gli altri,
adesso e sempre,
piuttosto che star soli.

*tratto da Sangre en las rodillas (il sangue alle ginocchia che è una delle immagini poetiche ricorrenti di questa bambina cresciuta suo malgrado) – uno dei tre libri che ha pubblicato questa magnifica murciana. li trovate qui e io ve li raccomando perchè sono approcciabili anche per chi parla poco lo spagnolo)

per leggerla gratis e conoscere meglio i suoi temi e il suo stile di scrittura ci sono alcune annate di blog da spulciare, che sono gratis ;)

AnaElenaSangrerodillas

questa è la versione originale (che di sicuro suona meglio):

Con tal de no estar solos
andamos con locos, con idiotas y borrachos,
con mujeres vacías o de moral dudosa.
Mentimos a los padres,
juramos en vano,
entregamos la piel y comprometemos nuestros sueños.
Cruzamos la calle a ciegas
con el primero que nos da la mano.

Con tal de no estar solos
montamos una gran farsa a la que llamamos AMOR
(así, con mayúsculas)
Sacando conejos muertos de una chistera, barajando con trampas nuestras cartas y haciendo trucos malos con espejos
para no darnos de bruces con la realidad
y alejar de nosotros el miedo
a estar solos.

Porque, con tal de no estarlo, o de no parecer que lo estamos
pasamos hambre, despilfarramos dinero,
oímos sin escuchar,
abrazamos sin abarcar,
y nos convertimos en autómatas desesperados,
olvidando lo hermoso que es sentarse a esperar a que las cosas, sencillamente, sucedan.
El olor a jazmín de las noches de verano y el hallazgo inesperado de lo auténtico, que nos ha de encontrar desprevenidos, despojados de artificios, sin adornos, desarmados y tranquilos. Liberados de todo lo que pesa y esclavos de lo vaporoso, lo ingrávido…

Dejarse llevar…

Pero con tal de no estar solos
NI SIQUIERA UN MOMENTO,
seguimos buscando y seguimos fingiendo.
Maquillamos lo que se ve, y lo que no también,
por temor a que descubran nuestros defectos
y la fragilidad que se esconde tras ellos.
Nos apremia el desamparo, la angustia y la prisa…
de modo que nos devora la noche y nos sorprende el día
casi siempre en el lugar inadecuado,
donde un incómodo silencio
(y un dolor en el pecho)
nos reprochan una y otra vez
todas esas tonterías que hacemos,
unos y otros,
ahora y siempre
con tal de no estar solos.

Ana Elena Pena (“Sangre en las rodillas”-2012)

l’amore secondo @FeniceArde

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tra le meravigliose ragazze che hanno contribuito a illuminare il palcoscenico del Transvalentino, c’è lei: Santa Dubito, supereroina acida che cavalca impavida le praterie di Twitter (portandosi appresso qualcosa come 13mila follower – e se li merita tutti).

IMG_9730

purtroppo assente dallo scenario, ci ha regalato un contributo salace che spara a zero sulle mitologie dell’amore commerciale e sulle schiavitú del sentimento.
un monologo fulminante che potrete riascoltare, dalla stessa voce che lo incarnó chez Cagne Sciolte, durante la 24 ore femminista che Radio Onda Rossa organizza anche quest’anno per celebrare l8 marzo.

io intanto mi prendo la soddisfazione di pubblicarlo.

mezzamela

Caro Wilde, magari fosse vero che i poeti hanno ucciso l’amore. A me sembra che la carneficina sia ancora in atto e che sia morto solo tu.
Io vi vedo, vi sento, vi leggo e mi sembra chiaro che la storia della metà della mela v’abbia fatto proprio male. Ma non scherziamo, suvvia.
Io se trovo l’anima gemella mi sparo in bocca. Ma gemella cosa? Mi volete uccidere, forse?
Il Simposio l’ha scritto Platone che, guarda caso, della sua anima gemella che gli completava la vita non ci ha mai parlato. Perché non ce l’aveva, facile. Ma pensate pure che fosse un uomo discreto e amante della privacy.
Continuate pure a cercare ‘sto pezzo di mela. E continuate a pensarvi incompleti senza una persona accanto, che magari vi fa sentire costantemente inadeguati e mai abbastanza, però voi lo chiamate Amore, con la A maiuscola che subito diventa una poesia da cioccolatino.
A me la vostra idea di amore mi fa schifo. Mi sembrate tutti rincoglioniti, perdete la razionalità, iniziate a diventare ossessionati: e ora ti rubo la password di facebook per vedere a chi scrivi, e perché hai effettuato l’ultimo accesso su WhatsApp alle 4 del mattino se mi hai dato la buonanotte alle 2:37, e non guardare il culo delle altre, e non flirtare con gli altri uomini.
Il vostro Amore lo immagino come una prigione piena di gattini e peluche a forma di cuore con su scritto I Love You.
Così. Questo amore così violento, così fragile, così tenero, così disperato, così rompicoglioni.
Questo amore che finché ci siamo utili a vicenda va tutto bene, non lo ha scritto nessuno in una poesia?
E i cantanti, anche i cantanti credono in forme fantascientifiche dell’amore. Non abbiamo scampo.
Per me certi amori che non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano, si dovrebbero prendere anche un calcio in culo, in modo da fare un altro giro immenso e perdersi nelle correnti gravitazionali, lo spazio e la luce, invecchiare e morire. Finalmente.
Siete riusciti anche a farci sentire in colpa perché facciamo sesso senza amore, ché se non sei perdutamente innamorato di qualcuno non ci scopi bene. Ma cosa siete, Biancaneve e il principe azzurro?
Tutta la vostra vita incentrata sull’amore che viene prima di ogni cosa, e poi tutti disperati perché non potete esibire il vostro partner come trofeo nelle uscite di coppia di San Valentino.
Ma forse è colpa mia che non sono adatta per l’amore: l’ho scoperto quel giorno in cui un mio amico metallaro accompagnò la sua ragazza al concerto di Gigi D’Alessio. Lì ho avuto un’illuminazione, non potrei amare fino a tanto. Sarà colpa mia.
Colpa mia che non voglio accanto uno che mi completi ma che aggiunga qualcosa alla mia completezza, colpa mia che non ho paura di restare da sola e non accetterei mai di passare la vita con qualcuno che mi chiama “troia” e non per un gioco erotico.
Colpa mia che faccio sesso con grandi soddisfazioni senza metterci i cuori in mezzo, colpa mia che vorrei iniziaste tutti a scrivere “Cazzo” e “Figa”, in maiuscolo. Mica Amore.

Ricominciamo – crowdfunding pornoterrorista 2º round

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(immagine tratta dal sito indisorder.com)

A piú di due settimane dal lancio del crowdfunding di Pornoterrorismo, la raccolta dal basso finalizzata a finanziare la traduzione e la promozione del libro di Diana J. Torres in Italia, la scarsa partecipazione economica all’impresa ci ha spinto a riconsiderarne i numeri e ad aggiustare il tiro.

Nelle piattaforme di finanziamento collettivo, se non si raggiunge l’obiettivo economico prefissato la campagna viene dichiarata chiusa con insuccesso – e i soldi delle donazioni giá ottenuti non vengono riscossi.

Per questa ragione abbiamo deciso di aprire una nuova campagna, dall’obiettivo economico piú modesto, che lascia fuori il compenso per il lavoro di traduzione (che speriamo di poter ripagare con gli introiti generati dalle iniziative del tour promozionale).

Sappiamo che molte persone in Italia sono interessate al lavoro della Pornoterrorista e che la sua tournè sará un evento storico. Per questa ragione, oggi con piú forza di ieri, vi chiediamo uno sforzo e un impegno diretto per renderla possibile.

Se questo crowdfunding non avrá successo non ci saranno date e non potrete vederla, ascoltarla, conoscerla direttamente. Sarebbe una gran perdita non solo per chi giá conosce il suo discorso ma anche per chi non avrá la possibilitá di venirne a conoscenza.

Senza le vostre donazioni (che sono in fondo il pre-acquisto di un libro e non un contributo a fondo perduto) non sará possibile comprare i biglietti aerei e sostenere le spese organizzative necessarie al buon funzionamento della tournè.

É il momento di prender posizione.

Come attiviste non pensiamo che sia il denaro a muoverci (e probabilmente per questa ragione non ne abbiamo da investire) ma sappiamo – ed è il momento di dirlo senza girarci intorno – che senza un sostegno economico diretto da parte della comunitá pornoribelle italiana il sogno di portare in Italia la voce del Pornoterrorismo rimarrá una buona intenzione inattuabile.

Per questo chiediamo alle persone che avevano giá effettuato donazioni di tornare a farle (quelle del crowdfunding chiuso verranno annullate) e a chi ancora non aveva trovato il tempo o la motivazione necessaria di farlo senza indugiare oltre.

Per dare una scossa all’Italia bigotta e perbenista, per squarciare il velo della repressione sessuale che ci avvolge, per riconciliare le parole poesia e politica il Pornoterrorismo ha bisogno anche di te.

Se ieri era troppo presto, domani sará troppo tardi.
Il solo momento è ora.

PARTECIPA!


Embrioni verdi fritti – cabaret ostetrico

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anche se non c’è niente da ridere, noi rideremo lo stesso.

perché è dei nostri corpi che parliamo, delle nostre storie,
e della libertá di scelta che scegliamo di difendere insieme.

e scegliamo di farlo rispondendo all’orrore con la gioia e il riso di Medusa

illustrazione di Alessio Spataro

illustrazione di Alessio Spataro

il collettivo Ambrosia in collaborazione con Slavina presenta:

EMBRIONI VERDI FRITTI

cabaret ostetrico in difesa del diritto all’autodeterminazione e contro gli attacchi alla legge 194

per una contraccezione (anche d’emergenza) libera e consapevole, per ribadire la necessitá di una educazione sessuale continua, per la laicitá della ginecologia

 

Ci riguarda tutte.

Quelle che tra noi hanno sofferto un aborto (giá, anche quando non lo vivi nella tua coscienza come un assassinio l’interruzione volontaria di gravidanza è un’operazione chirurgica intrusiva e ha sempre un certo peso nella vita di una donna)

Quelle che sono passate per l’incubo ancora piú opprimente dell’aborto terapeutico

Quelle che sono impazzite cercando di farsi ricettare una pillola del giorno dopo

Quelle che hanno subito violenza ostetrica durante il parto

Quelle che si sono dovute informare da sole su come proteggersi dalle malattie sessualmente trasmissibili – perchè le loro pratiche non erano inquadrabili nella dinamica riproduttiva e a chi doveva consigliarle fino a quel momento era sfuggito il dato che in Italia esistono le lesbiche…

(e un lungo eccetera)

Molte di noi hanno vissuto – in maniera piú o meno traumatica – episodi legati alla realtá spesso dolorosa della medicina applicata al corpo femminile. Vogliamo attraversarli e riviverli insieme in un momento catartico dal quale ci auspichiamo di uscire tutte piú potenti e meno sole.

Cerchiamo collaborazioni:

- se hai una storia ostetrica da raccontare
- se sei un’interprete che ha voglia di mettere a disposizione le sue capacitá per raccontare la storia di un’altra
- se hai in mente una canzone, un monologo o uno sketch famosi a tema aborto/salute femminile che pensi sarebbe bello riproporre
- se sei un’atleta, ballerina, danzatrice, stripper e ti va di presentare un numero che comunichi la potenza del corpo femminile
- se sei abile col trucco/parrucco/stilismo e vuoi dare una mano
- se vuoi dare una mano e basta
sei la benvenuta – il palcoscenico sará anche tuo!

**il femminile non è casuale e in questo caso nemmeno un artificio retorico: il palcoscenico del cabaret sará uno spazio non misto, visto che vorremmo dar vita ad un momento di protagonismo e presa di parola per biodonne, neodonne e persone trans.
se sei interessato a questo percorso e non rientri in nessuna delle categorie sopra elencate ti invitiamo a rispettare la nostra scelta, sarai comunque benvenuto allo spettacolo – e se quel che vuoi è aiutare e partecipare potrai farlo anche non salendo sul palco.

noi saremo a Zam dalle 11 del mattino (c’è un incontro per organizzarsi in vista della manifestazione lanciata dagli antiabortisti di no194.org) e credo che cominceremo ad organizzarci per il cabaret intorno alle 16 – è tutto un po’ in divenire ;)

se vuoi partecipare, fai la tua proposta via mail scrivendo a ziaslavina@gmail.com e considera che prediligeremo numeri collettivi e corali.

ringraziamo caldamente fin da ora Alessio Spataro, che ci ha regalato il primo contributo con l’illustrazione degli Embrioni Verdi Fritti (per il nome ringraziamo ChiFiaFaRaFa e l’hashtag #cineaborto)

 

dai micromaschilismi alle nuove mascolinitá: l’avventura di essere uomo in un mondo di maschi

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success_kid

Se il modello di persona che vorresti essere è diverso dal maschio selvatico, dal mammone, dal tronista, dallo stronzo che non deve chiedere mai

Se nonostante questo un giorno ti hanno dato del maschilista, non hai capito perchè e ti è presa male…

Se, pur rispettandone il discorso, non ti spieghi come il femminismo possa essere una lotta di liberazione anche per chi non è femmina…

Se per il momento hai sfangato la questione di genere usando l’asterisco nelle comunicazioni scritte per non tener fuori nessun* ma questa soluzione non ti soddisfa (e nelle assemblee continui a declinare tutto al maschile)…

Se una mattina ti sei svegliato e ti sei accorto che il maschilismo ha ferito e oppresso anche te…

Se sei un attivista e senti di aver voglia di condividere con altri simili uno spazio separato di discussione su quella che è stata la tua educazione al sesso e al sentimento e sulle sue ricadute sul tuo comportamento sociale…

Se sei etero, queer o favoloso,
se sei attivo, passivo o versatile,
se se poliamoroso, asessuale o sposato ma comunque in possesso di gameti maschili e/o percepito socialmente come maschio,
questo laboratorio è uno spazio di riflessione e confronto pensato per te e per chiunque altro vorrá mettersi in gioco in un ragionamento collettivo sui privilegi e i tormenti della condizione maschile.

Lo condurrá – con curiositá, attenzione e discrezione – la porno-attivista Slavina (figlia, sorella, amante e amica di un bel po’ di uomini) attraverso spunti di discussione e dinamiche sperimentali.

Il laboratorio si terrá SABATO 7 giugno dalle 15 alle 18 ed è parte della programmazione della Ladyfest Milano, evento DIY e autofinanziato che riunisce a Milano, nel week end 6-8 giugno, un’offerta di eventi ed esperienze queer e femministe unica nel desolante panorama italiano.

Per partecipare al laboratorio ti chiediamo una quota simbolica di 5 euro e di formalizzare la tua iscrizione scrivendo a ladyfestmilano@grrlz.net – garantiamo riservatezza :) e in questo modo potremo passarti dei materiali preparatori e degli spunti di approfondimento.


Una delle accuse abituali con le quali si usa attaccare le femministe è la cantilena che odiamo gli uomini. Nel mio caso, niente è piú lontano dalla realtá. Io adoro gli uomini. Sono i maschilisti che non sopporto. Ho piú amici uomini che la maggior parte degli imbecilli che m’hanno additato durante tutta la mia vita come anti-uomini. E il femminismo è stato precisamente il discorso vitale che m’ha permesso di curare le ferite aperte dalla brutalitá dei maschilisti e di aprire un’alleanza con gli uomini, trasformando un’incubo nel mio mondo abitabile.
(Itziar Ziga, Devenir Perra)

Passare, che complicato…

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traduzione dell’articolo Pasar, ¡qué complicado! di Pol Galofre Molero per Pikara
>>>>>>>> gracias a ambas ;)

 

premesse terminologiche:
- l’utilizzo del verbo passare in questo testo ha a che fare con il concetto di passing. nell’ambito semantico del gender, chiamiamo passing la capacitá di “passare per”, ovvero di sembrare a prima vista appartenenti al genere di destinazione dopo una transizione, ovvero il passaggio dal genere femminile al maschile e viceversa.
- con il termine cis l’autore si riferisce invece a cisgender, termine che definisce una persona che si trova a suo agio e vive in maniera conforme al genere assegnatogli alla nascita (termine che si contrappone a transgender).
- per butch si intende la donna che non corrisponde ai codici della femminilitá mainstream ed ha un’apparenza identificabile come mascolina

Ecco fatto. Ci son riuscito. Passo. In che senso passo? Passo per un ragazzo. Che concetto orribile. Non era che “sono un ragazzo”? Peró che ragazzo? Non saró mai un ragazzo cis, sono un ragazzo trans. E mi piace, non lo cambierei, è come mi sento meglio. Peró adesso passo. Passo per un ragazzo cis con tutto ció che questo implica.

Mr Patriarcado

Che perversione. Se non sto continuamente facendo coming out* sento che nascondo una parte vitale di me, che è che non sono un ragazzo cis. E nemmeno voglio esserlo.

Peró torniamo al “passare”. É stato un cammino lungo, ognuno ha i suoi ritmi e io sono lento. Peró questa lentezza mi ha permesso di fermarmi ed osservare. Osservare i miei cambiamenti ma anche quelli del resto della gente nei miei confronti, che sono quelli che mi sembrano piú interessanti.

Il primo cambiamento fu quando passai dall’essere un oggetto del desiderio maschile all’essere un uguale. All’improvviso mi resi conto che da tutta la vita mi portavo sulle spalle uno zaino pieno di paura. Paura che in una forma piú o meno cosciente abbiamo sentito tutte noi persone socializzate come donne, e quelle che sono riconosciute come tali. Una paura sistematica che diamo per scontata. Cosí sistematica che io (nonostante fossi femminista) non fui capace di riconoscerla fino a che non me ne fui liberato. Fino al giorno in cui mi si avvicinó un tipo per strada per parlare e per lui non esisteva possibilitá di relazione sessuale. L’avvicinamento fu da pari a pari.

Mi sembró insolito. Da una parte mi affascinó, m’incantó. Era un riconoscimento molto forte della mia transizione, dell’immagine che volevo dare di me stesso. D’altra parte mi allarmó. Come potevo aver portato un sacco cosí pesante addosso senza rendermene conto? Quanto avevo assimiliato il concetto di dover tenere sempre la guardia alta? Di chi era la colpa? Era colpa del tipo che mi toccó il petto in mezzo ai tunnel della metro quand’ero adolescente? Di quelli che m’avevano mostrato i loro cazzi per la strada? Era colpa dello stronzo che mi aggredí quando avevo 11 anni? Senza queste esperienze, avrei portato lo stesso zaino? C’è qualcuna che non abbia avuto esperienze simili a queste? Parlo con mia madre e mi spiega le volte che le hanno toccato il culo in pubblico: sull’autobus, al cinema, eccetera. Lo dice come se niente fosse, per alleggerire la questione – che invece è pesante. Penso a quelle volte che non mi sta raccontando. Mia sorella sta zitta. Anche lei avrá storie come questa? Quanto le hanno fatto male? Quanto stanno nascoste, visto che non puó nemmeno menzionarle? Le ha dimenticate? Io ho dimenticato lo stronzo per 9 anni.

Adesso non mi toccano piú per la strada.

Il secondo cambiameno fu interno. Adesso non ero piú oggetto del desidero maschile eterosessuale. Passai a formar parte del circolo dell’”uomo” e ogni volta che mi permettevano l’entrata a spazi esclusivamente maschili mi convertivo in una persona ogni volta piú femminista. Indossati gli occhiali viola dovetti ripensare la mia identitá, ma soprattutto la mia mascolinitá. Che tipo di mascolinitá volevo performare? La stessa di quando il mundo mi identificava come donna butch? Adesso che passo per un ragazzo, posso mantenere la stessa attitudine che avevo come donna autodeterminata**?

Avevo imparato ad occupare lo spazio, a conquistarlo… e adesso mi toccava apprendere a disoccuparlo. Decisi coscientemente che se il mondo mi identificava come uomo, io avrei performato la froceria***. Mi de-butchizzai come potei: a partir dall’orecchino e a seguire, sorridendo sempre, gesticolando e incrociando le gambe come non avevo mai fatto. Esser diventato un uomo bianco, giovane, eterosessuale e di classe media era un po’ troppo e, purtroppo o per fortuna (per me è piú purtroppo) con i ragazzi trans non esistono mezzi termini. O ti identificano come donna mascolina o sei un uomo. Il concetto “ragazzo trans”, questa immagine che anelo, non esiste. Peró puó darsi che il mio anelito sia legato al fatto che non esiste, e se esistesse (come esiste quella di “ragazza trans”) forse la rifuggirei.

Il tempo che è passato e il testosterone hanno fatto effetto. Adesso passo ancora di piú. Passo, passo. Passo tanto che è arrivato un terzo cambiamento. Un terzo cambiamento che non mi piace, che mi allarma e che mi disturba. Giá 2 o 3 volte mi hanno espulso da spazi nei quali c’erano ragazze cambiandosi i vestiti. In quel momento m’ha fatto strano, m’ha fatto ridere e mi è sembrato curioso. Vengo dal mondo dello spettacolo e sono abituato al fatto che ci si cambi davanti a chiunque. Peró c’è stato qualcosa che mi è rimasto in testa, rigirando e facendo run-run. Oggi me ne sono reso conto: mi hanno trasformato in un soggetto desiderante. Mi hanno trasformato nel motivo per cui andare in giro con quello zaino pieno di paura. In un potenziale aggressore.

Non mi piace questa posizione, non la voglio. Mi sento intrappolato, non so come disfarmene. Un’altra volta lo stesso sistema, l’eteropatriarcato, facendone una delle sue. Merda di eteropatriarcato! Perchè non se ne va affanculo e non ci lascia tranquille? Ci sono altri ragazzi che si sentano scomodi in questa posizione? Puó darsi che non sia questa la domanda… Ci sono altri ragazzi che si rendano conto di stare in questa posizione? Dei motivi per i quali stanno in questa posizione? E questo non fa suonare qualche campanello d’allarme collettivo? E direi anche di piú: e i ragazzi trans? Dove sono i ragazzi trans? Perchè non aprono bocca? Perchè dobbiamo performare sempre la stessa merda di mascolinitá? Perchè il transitare è cosí attraente? E soprattutto: se noi non rinunciamo a tanti privilegi acquisiti, come speriamo che lo faccia un ragazzo cis a cui viene tutto come giá dato?

Peró… quando la rabbia si stabilizza, un’altra domanda mi gira in testa: potrei performare questa mascolinitá piú androgina, piú frocia, se qualche volta mi identificassero come ragazza?

Passare. Che perverso. Che difficile.

*in originale: salir del armario
**in originale: empoderada
***in originale: ser marica

essere uomo in un mondo di maschi

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(ho ricevuto questo contributo da uno dei partecipanti al laboratorio sulle nuove mascolinitá della Ladyfest. pensavo di editarlo e tagliare delle parti per renderlo piú leggero e *fruibile* ma alla fine ho deciso di rispettare lunghezza, quantitá e densitá di questa autonarrazione coraggiosa e piena di spunti.
grazie a Dario, l’autore di questo testo, e grazie ancora a tutti i partecipanti)

discordant23.tumblr.com

A Milano lo scorso fine settimana si è svolto a Zam la LadyFest, una tregiorni di performance, spettacoli, laboratori, concerti dedicati al femminismo, al mondo queer e trans. Partecipando al laboratorio di Slavina sui micromaschilismi mi è stata posta una domanda alla quale non ho risposto, ma sulla quale ho riflettuto molto, anche nei giorni successivi. La domanda era: “Quando ti sei accordo di essere maschio e di poter godere di alcuni privilegi rispetto alle donne”?
Non ho risposto perché non lo ricordo. Non ricordo quando presi per la prima volta coscienza di essere maschio, né quando mi resi conto avere dei privilegi. Come del resto non ricordo gran parte dell’infanzia. Non saprei dire chi a casa, finito di mangiare, si alzava e sparecchiava. Non ho memoria dei pranzi, né delle cene. Sono sicurissimo che fosse mia madre, ma se mi viene chiesta un’immagine precisa, un dettaglio di quell’atto, non so rispondere.
Non ricordo, o forse semplicemente mi impedisco di rievocare molte cose, forse troppe.
Altre invece me le ho ben chiare. Le ho tirate fuori, piano piano. Lavorando su di me, sulle mie paure, sui miei comportamenti, sui miei tanti errori. Ma le ho tirare fuori.
Non mi ero mai fermato a rintracciare nella memoria il momento in cui ho scoperto i privilegi dell’essere un ‘maschietto’ in una società sessista. Di certo ho ben chiaro, episodio dopo episodio, quanto fu crudele l’impatto avuto nel capire di appartenere ad un genere, quello maschile, responsabile di tanta violenza che esplodeva in mille modi differenti verso chi a non apparteneva al suo mondo, verso i ‘non omologati’, verso chi rifiutava lo status di maschio.

Ricordo mia madre che piangeva, la ricordo nei litigi con mio padre. I singhiozzi di lei in camera da letto che risuonavano per la casa.
Non che fosse un violento mio padre, almeno non nell’accezione fisica del termine. Non alzava le mani, ma non serve alzare le mani per provocare dolore e paura, non serve alzare le mani per avere atteggiamenti violenti. Questo l’ho imparato presto.
Fra i tanti pianti di lei, uno è indelebile nella mia mente, lo rivedo oggi come se fosse appena accaduto. Avrò avuto 5-6 anni. Ricordo una via alberata vicino casa, è pomeriggio, c’è il sole, è estate, domenica. Stavamo tornando dal parco. La città è deserta. Roma deserta come lo è nelle domeniche d’estate.
Mi tiene per la mano, mentre io cammino guardando gli alberi. Mi incanto nel vedere le foglie. Ma lei mi tira, continua a tirarmi per il braccio, dicendomi di andare.
La osservo, non mi sembra arrabbiata, eppure piange. Mi parla come per rassicurarmi che non sta succedendo niente, e piange.
E’ in quel momento che vedo la macchina che ci si affianca.
E’ un po’ che ci viene dietro. Dal finestrino vedo un uomo, grosso, pelato, con una mano guida l’altro braccio appoggiato sul finestrino. Ha camicia, le maniche tirate su.
Ci segue, parla con mia madre, non riesco a ricordare le sue parole. Mia madre non lo guarda, fa finta che non ci sia, non si volta, continua a camminare, mi tira, ma piange.
Lui non se ne va, continua a parlare ed io continuo a non ricordare le sue parole.
Io non l’ho mai visto e sono sicuro che nemmeno mia madre l’ha mai visto.
Ma so bene che è lui la causa di quel pianto.
Il mio ricordo finisce lì, con quel senso di rabbia e impotenza incastrato in quel corpo di 6 anni.

Nulla di drammatico certo, un semplice maschio a caccia della sua preda femmina, uno dei tanti che avrei conosciuto: uno di quelli che un sì è un sì (ma non deve essere troppo veloce altrimenti è una puttana che non ti devi sposare) e un no è lo stesso un si (perché tanto si sa che le donne sono così). Uno di quelli che ‘come scopo io nessuno’, di quelli ‘che come gioco io a pallone nessuno’ di quelli ‘che come picchio io nessuno’. Quelli che sei donna provo a portarti a letto altrimenti che uomo sarei. Quelli che ‘se mi dici no sei una troia’, ‘se mi dici sì pure tranne se poi ci fidanziamo, allora sei santa’, pronta a ridiventare ‘troia appena mi lasci’.
Quelli li, quelli che conoscete anche voi. E non sto parlando di chissà quale mostri, li trovate tra i nostri padri, tra i nostri figli, tra i nostri mariti o tra i tanti amici e compagni di cui ci circondiamo.

La mia infanzia è stata caratterizzata da un evento, un incidente. Avevo quattro anni, mia madre, mia sorella ed io attraversavamo sulle strisce, una macchina ci investì. Mia madre accortasi del pericolo spinse mia sorella in avanti, facendola cadere ma fuori della portata dell’auto che arrivava.
Nel mentre riuscì a sollevarmi per un braccio, ma non fece in tempo, ero dalla parte sbaglia e fui il primo che la macchina prese.
Feci un volo di quindici metri andando poi a finire sotto una macchina parcheggiata. I soccorritori dovettero cercarmi parecchio perché nessuno si era reso conto di dove l’impatto mi aveva scaraventato.
Mi ruppi il femore ed entrai in coma.
Cinque ragazzi, figli di papà, giocavano al pilota per le strade della città. Scapparono dopo l’incidente. Un tassista che aveva visto la scena gli corse dietro e riusci a bloccare la loro macchina. Uscii dal coma ero uscito, ma la lesione al cervello era rimasta, e solo il tempo avrebbe potuto chiarire se e quali danni quell’incidente aveva causato.
Racconto questo per dire che la mia infanzia fu cosi molto ovattata. Sono cresciuto in un ambiente protetto, magari necessario, ma che poco mi preparava a quella che era la realtà del mondo lì fuori.

In seconda media cambiammo casa e quindi scuola. Ricordo il primo giorno, eravamo lì in attesa di entrare, due miei coetanei davanti a me stavano prendendosi a parolacce per decidere chi era il più forte. Domandai perché litigano, fui colpito allo stomaco con un cazzotto e finii per terra. Non sapevo nemmeno cosa fosse un cazzotto.

Passano i giorni, passano gli anni. Hai il naso lungo quindi sei “pinocchio”, non sai giocare a pallone quindi sei una “pippa” e nessuno ti sceglie in squadra, se c’è un ‘amico’ magari ti sceglie e ti mette in porta, con la faccia di già sa che quella partita è persa.
“E non fai quello e non fai questo” allora vuol dire che hai “paura” che sei una “femminuccia” che sei un ‘tira seghe’. Parte uno e tutti dietro in coro. E tu non puoi dire nulla. Dovresti accettare e basta altrimenti sai come finisce.
Però io non piango. La rabbia del pianto di mia madre è ancora li, e questa violenza, queste prese in giro, quest’inutile sadico gioco del volermi mettere in mezzo non mi fa stare zitto. La paura è tanta, ma la paura è l’anticamera del coraggio. E in tanta paura riesco a trovare tanto coraggio. Non sto zitto, non mi piego, ma finisco sempre con la faccia a terra, sono sempre di più di me, sono sempre più forti.

Ho dodici anni, sto legando la mia bicicletta al lampione davanti al cinema. Quei vecchi cinema di paese, che la domenica d’estate facevano lo spettacolo pomeridiano alle due del pomeriggio. Primo spettacolo alle 2 secondo alle 17.30.
Sto lì con un amichetto, conosciuto in quel posto di villeggiatura in Toscana, anche lui romano, anche lui in vacanza con la famiglia.
Stiamo aspettando che il cinema apra, siamo arrivati un po’ prima, è appena passata l’una e mezza, ancora il paese sta a tavola.
Vedo arrivare tre ragazzi, li riconosco di vista, sono del posto, sono più grandi di noi, quindici sedici anni. Dentro di me spero che passino oltre anche se so che non sarà cosi.
Ci vedono, ci fermano, iniziano con la solita trafila di prese in giro e di minacce. Oggi sono in forma o semplicemente non hanno di meglio da fare. Per un momento si disinteressano di me, si accaniscono sul mio amico. Iniziano a smontagli pezzo per pezzo la bicicletta, sotto la minaccia di riempirlo di botte.
Lui non reagisce, non dice nulla, li lascia fare e in fondo a anche ragione, gli smontano la bici ma nulla più, sono soddisfatti di averlo piegato al loro volere.
Poi si accorgono di me.
Si avvicinano e vanno per prendermi la bicicletta. Sono terrorizzato, così tanto da non rendermi conto che le parole già mi sono uscite di bocca: “No, la mia bici non la toccate”. Non ho nè il fisico nè l’aspetto di uno che secondo i loro ‘codici’ può permettersi di rispondere così. Un ‘tira seghe’ se risponde paga pegno cosi s’impara a stare al suo posto.
Cominciano a minacciare, cominciano a spingere, io spingo a mia volta, come reazione istintiva. Iniziano a colpirmi in tre. Sono per terra, loro in piedi che ridono, li sento urlare che mi devono dare una lezione, li sento dire portiamolo “di là”. Mi prendono due per le braccia e uno per i piedi. Mi sollevano e cominciano a camminare.
Dentro di me il terrore sale, ‘di là’ ci sono i bagni pubblici, mi stanno trascinando nei bagni, siamo nel vicolo, vedo l’entrata. Capisco che se mi portano lì dentro sono perduto, nessuno vedrà cosa mi faranno, nessuno potrà aiutarmi, capisco lì dentro non devo farmici portare.
Comincio a divincolarmi con tutta la forza che, ho paura, tanta paura, ma più ho paura più scalcio. Quello che mi teneva i piedi perde la presa. Ora sono in terra, ho i piedi liberi e mi svincolo ancora di più. Tiro, tiro, sento un braccio che si è liberato. E’ a quel punto che mi viene un’idea, una sorta di illuminazione.
Non so perché e come l’ho fatto. Solo che, lì da per terra, ho afferrato la palle di quello più grosso e che sembrava il più cattivo. Le stringo forte e lo sento urlare e piegarsi.
Ma è un attimo, e gli altri due mi rimettono a posto. Prendo calci, mi tirano su di peso, mentre l’altro si riprende, mi guarda, mi urla in faccia che mi ammazza, mi butta per terra e con tutto il suo peso si butta su di me, colpendomi al centro della schiena con una gomitata.
Rimango a terra, non riesco più a respirare, il sangue mi esce dalla bocca.
I tre se ne vanno. Io rimango li immobile. Il peggio è passato, ora devo cercare di respirare, voglio alzarmi, voglio andare a casa.

Alla fine di quell’estate, tornai a Roma. La scuola non era ancora iniziata, chiesi a mia madre se potevo andare il libreria. Tornai con un libro, “Ill karatè in dodici lezioni”. Non dissi mai a nessuno il perché volevo fare arti marziali.

Una cosa avevo chiara: per sopravvivere o dovevo omologarmi al loro comportamento o dovevo imparare a difendermi. E io non potevo omologarmi: non capivo nulla di pallone, non toccavo il culo a nessuna, non avevo nemmeno mai baciato nessuna. Non riuscivo a dare ragione a qualcuno solo per quieto vivere, non riuscivo a sopportare di fare o ricevere scherzi inutili per poter essere accettato. Non sopportavo l’idea di essere umiliato né di umiliare.

‘Scherzi’, fra loro li chiamano ‘scherzi’. Non la considerano violenza, loro scherzano.
Me ne resi conto la prima volta in cui le cose cambiarono, in cui la mia vita iniziò a prendere una direzione differente.
Ho sedici anni, sono in un bar al paese, sempre il solito paese.
Le solite prese in giro, le solite minacce, le solite umiliazioni, la mia solita reazione. Solo che questa volta è più violenta, più inaspettata, il lavoro in palestra comincia a farsi vedere. Non che ancora sia in grado di gestire la cosa, ma comincio a non sentire più la paura che blocca, i pensieri sono più lucidi. Prova a colpirmi, ma non ci riesce, è più grosso di me e mi si lancia addosso. Finiamo sopra un tavolino. Il mio sguardo è attratto da un posacenere. Non penso, lo afferro e con tutta la mia forza colpisco l’avversario in testa.
Lui strilla dal dolore, si leva, la testa gli sanguina. Mi guarda e spaventato mi dice che sono scemo. Non riesce a capire perché gli ho dato il posacenere in testa. Mi dice che stava scherzando.
“Ecco, allora non scherzare più con me” e da quel giorno fu così. I miei amici impararono che con me certi ‘scherzi’ non si potevano fare, i miei nemici imparano altrettanto.
La vittima non accettava più il suo ruolo, e il carnefice si dileguava.
Cresci, ma non è che finisce. I ‘maschi’ continuano a esistere, solo che il ‘maschio’ sa scegliersi bene le prede: le sceglie docili, remissive possibilmente bloccate dalla paura. E io non rientravo più nel loro territorio di preda. Rimanevo uno ‘strano’ magari diverso dalla norma, però – dicevano – fa arti marziali, è uno che si difende. D’improvviso da tira seghe vengo accettato nel club dei maschi. Ma in quel club io non ci so stare, non voglio stare.

Prima delle arti marziali, facevo pattinaggio, artistico. Lo amavo, ero attratto dai pattini, da quei salti, da quel volteggiare. Inutile che riporti i commenti e i sorrisi degli amici delle mie colleghe pattinatrici che venivano a guardarle e trovavano un ragazzino in pista.
A me anche piacevano le ragazzine che pattinavano, quanti amori segreti e mai rivelati che mi tenevo dentro. Che per troppo pudore e per troppo rispetto per l’altra non riuscivo ad esternare.
Però pattinavo e questo era abbastanza per farmi etichettare.
Non ero scandalizzato dal fatto che per loro ero un ‘frocio’, termine che in fondo ancora nemmeno conoscevo.
Non era il termine in sé o il suo significato a farmi arrabbiare, ma la prepotenza, la cattiveria, la violenza che chi pronunciava quelle parole portava con se.

La violenza, è vero, anche io ho imparato ad usarla. Sempre per difendermi da altra violenza. Non mi è mai passato per la mente di usarla come facevano i miei coetanei per farsi belli, come galli dentro un pollaio per mostrare agli altri polli chi è il più figo e chi ha il diritto di prendersi le galline più belle. Io in questo pollaio non ci voglio entrare.

Per difendermi ho usato violenza sugli altri, certamente, ma sopratutto su me stesso. Violentando il mio corpo, i miei desideri, cambiando le mie aspettative.

Mi alleno da più di trent’anni, non ho mai smesso e penso che non smetterò mai. La fortuna è stata quella di essere riuscito a trasformare tutta quella paura e quella rabbia in passione. Ma non per tutti è cosi. Quelle violenze hanno segnato la mia vita, l’hanno modificata, io per fortuna e per merito (perché il merito è anche mio e me lo rivendico tutto per la fatica fatta) ne sono uscito bene. Ma per quanti non è cosi?

Penso al mondo delle donne, penso al mondo gay al mondo trans penso a tutti quei mondi in cui i diritti e la dignità della persona, vengono continuamente calpestati solo perché non rientrano negli schemi preconfezionati di questa società così maschilista, così sessista. In nome di una regola, di un codice scritto da maschi per maschi, o meglio da maschi bianchi eterosessuali per maschi bianchi eterosessuali, con le loro rigide gerarchie, i loro rigidi ruoli, i loro rigidi tabù.

Penso alle battaglie che si fanno e alla tanta strada che ancora c’è da fare. Penso che il mondo ‘maschio’ che è il principale artefice di questo mondo discriminatorio e violento che ci circonda, debba fare i conti con se stesso, in se stesso.
Penso che il ‘maschilismo’ debba essere necessariamente debellato. Perché che questa non deve essere una battaglia solo femminista, solo gay o solo trans. Perché violenza e prepotenza colpiscono tutti, e tutti in un modo o nell’altro l’abbiamo provato sulla nostra pelle.
La violenza e la prepotenza dei maschi.
Quella violenza, quella prepotenza di quei bambini che mi prendevano in giro, di quegli adolescenti che mi picchiavano, di quegli adulti che in famiglia, nel lavoro, nella società continuano indisturbati a esercitare. In quell’eterna gara a dimostrare chi ha il cazzo più lungo che da sempre appassiona e condiziona la vita dell’universo maschile.

Tra qualche mese compirò quarantacinque anni. Due giorni fa, la figlia della mia compagna è uscita di casa per comprarsi un kebab. Tornata mi ha raccontato di un tizio sulla cinquantina fermo in motirno al semaforo. Mentre passava l’ha guardata e le ha detto ‘fammi un bocchino’.
Ed io sono tornato a quel pomeriggio d’estate di quando avevo 6 anni.

Naturalmente, non tutti i maschi sono cosi. E il maschilismo non lo troviamo solo nel genere maschile. Non siamo tutti colpevoli ma siamo sicuramente tutti responsabili. Io non sono da meno. Anche io sono maschio, anche io, con tutte le distanze che prendo da quel mondo non sono immune dai troppi condizionamenti che la società, la chiesa, la famiglia, la scuola, lo stato ci imprime nel cervello sin dalla più piccola età.
Ed è per la mia libertà, che ho scelto e scelgo di liberarmene.

Affinché il mio corpo e i miei pensieri non siano mai più in catene, né fisiche né mentali.
Schiavo di un personaggio scelto da altri di una sceneggiatura imposta.
Libero io, liberi tutti.
Scelgo di non essere vittima, scelgo di non essere carnefice.

Amor de verano di Lucy Sombra

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amore estivo

all’improvviso arriva l’amore senza che una lo abbia chiamato. non bussa, non avvisa, ti prende quando non sei depilata, quando non hai cambiato le lenzuola, con il frigo vuoto. non c’è nemmeno il caffè… arriva un amore da sogno e a distanza e torni a mettere in pratica tutte queste vecchie strategie di amore da lontano, solo che adesso, adesso sí, abbiamo ogni volta piú tecnologia, e nemmeno l’abbiamo usata tutta, e ancora ci rimane molto da sperimentare, cominciando, chiaramente, per incontrarsi corpo a corpo, sbattere le ossa, sudare la carne, succhiare i pori insaziabilmente per qualche giorno senza tregua, incoscientemente, senza casco né uniforme, senza fucile. arriva l’amore giusto quando eravamo cyborg (proletari della stessa classe), e tutta la nostra cibernetica dormiva nel nostro letto, e sognavamo twitter, skype, messaggi di testo, e il nostro amore si rappresentava cosí, cosí banalmente e semplicemente come un’applicazione incastrata in un apparato piú piccolo della mano. e perchè non l’avevamo fatto prima? e perchè non avevamo profanato i castelli della tristezza? perchè non avevamo fatto meditazioni simultanee in faccia al sole? semplicemente perchè l’anno passato è stato una merda, senza relativismi, senz’ombra di dubbio. allora, in questo stato minore, di sentimento incontrollable ed emozione contra-collerica regredisce il danno, lentamente, cade come pelle morta, sorgono nuovi scavi, siti archeologici persi per la forza della sconfitta e comincia il recupero del corpo, soprattutto delle macchie che contiene. cicatrici che adesso sembrano belle, quando la mia lingua le gratta come se si alimentasse di croste, quando mi insegni ad amare la mia traspirazione e l’amore è un tema di riferimento. tutto si vede bello da qui, e questa fragilitá è la cosa piú bella. perchè non abbiamo paura.

originale qui, traduzione e adattamento della vostra slave

Trans Hack Feminist

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transhackfeminist

Dal 4 all’11 agosto nell’ecolonia postcapitalista di Calafou si tiene il Trans Hack Feminist, un incontro transfemminista (organizzato insieme a etc) incentrato sull’utilizzo critico e la riappropriazione di tecnologie che investono campi d’intervento diversi che vanno dall’informatica alla ginecologia – da parte di soggetti storicamente esclusi dal discorso scientifico.

(versione in lingua inglese)

 

La scarsitá di donne, queer, trans e diversitá nel campo tecnologico in generale e specificamente nell’hacking è acuto. Per cambiare lo stato delle cose sono necessari, tra le altre cose, un avvicinamento critico alla tecnologia e alla cultura tech-hack. Tener presenti gli aspetti di genere è certamente importante, peró dobbiamo comporli con un’analisi intersezionale per riconoscere veramente dell’esistenza di sistemi di oppressione. Un avvicinamento intersezionale richiede che tuttx noi ci confrontiamo con le diversitá culturali, di status sociale, di orientamento sessuale e con altre strutture di potere che provocano forme e livelli diversi di disuguaglianza (in accessibilitá, disegno, uso, potenziale hacker, ecc) in differenti individui.
Inoltre crediamo che perchè ci siano piú femministe, attiviste post-coloniali e professioniste impegnate nell’uso e sviluppo di liberazione e tecnologie libere sono necessari spazi sicuri per accendere desideri! THF si concentrerá soprattutto su questo: nel fomentare questo desiderio verso l’avvicinamento alle tecnologie femministe e post-colonialiste che promuovano le differenze, l’autonomia, la liberazione e la resistenza sociale. Per iniziare questo processo che ci liberi dalle tecnologie del capitalismo e del patriarcato dovremo spingere sui limiti della tecnologia. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che siamo tuttx espertx delle tecnologie che usiamo tutti i giorni. E visto che consideriamo il genere come una delle tecnologie sociali piú penetranti/generalizzate/iniettate/mai create, sappiamo di aver molte cose da condividere e discutere anche su questo argomento!
Come THF crediamo di vivere una nuova alba nella quale sta sorgendo una resistenza tecnologica femminista e post-colonialista. Unisciti a noi nel creare un luogo dove donne, queer, transfemministe e attiviste possano apprendere, condividere e connettere su questioni tecniche, teoriche e performative con l’obiettivo a lungo termine della liberazione e dell’autonomia. Uniamo le forze per sfidare i sistemi di oppressione che affrontiamo tutti i giorni. Non ci dimentichiamo che questa resistenza tecnologica femminista e post-colonialista è parte dei movimenti e delle lotte che si susseguono nel mondo sia virtualmente che fisicamente. Noi come singolx e comunitá ci continuiamo a organizzare contro diversi sistemi di oppressione: le misure di cosiddetto austerity, il fallimento del sistema finanziario, le tecniche di sorveglianza, la violazione del diritto alla privacy, l’appetito del governo e delle imprese per i nostri (meta)dati, di cui si appropriano per governare I nostri corpi, la criminalizzazione dei nostri diritti riproduttivi, ecc.
Sostenendo THF contribuisci ad accelerare questa tendenza configurando le condizioni tecnologiche e umane di appoggio e supporto perchè la resistenza tecnologica femminista post-colonialista emerga. Non lo rivendichiamo soltanto, insieme avremo l’opportunitá di usare e sviluppare tecnologie libere costruendo un ambiente il piú distante possibile da comportamenti, pensieri e azioni patriarcali e capitaliste.
Vieni e unisciti a noi nell’immaginare, costruire e sviluppare il bottone di dis-integrazione della resistenza transfemminista e post-colonialista.

(dalla presentazione del Trans Hack Feminist, in originale qui)

c’è tempo per iscriversi fino al 28 luglio ed è ancora possibile proporre nodi di discussione (versione inglese)
>>>>>>>>>>>>> piú informazioni tecniche in inglese e spagnolo.

 

 

 

(((io partecipo proponendo un dibattito sull’educazione non di genere e le reti familiari informali, un nodo che si chiama Hack the baby

(dis)Avventure estive di una pornoattivista

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a seguire il poema conosciuto anche con il titolo di padre separato quarantenne

tettestate

padre separato quarantenne
incontrato sulla spiaggia con tre creature accollate -
tu che volevi tanto fa amicizia
ma che hai avuto la sciagurata idea di chiedermi
di cosa mi occupavo…

padre separato quarantenne, un po’ lo vorrei sapere
se a spaventarti è stata piú la parola #porno
oppure quell’altra anche piú oscena
perchè sei sparito in un lampo insieme a tutta la tua truppa
mentre io e mia figlia facevamo la doccia

padre separato quarantenne
un po’ ti capisco e anzi apprezzo il fatto che nonostante
i miei capelli troppo corti
i peli troppo lunghi
e il fatto che fossi l’unica in topless in tutta la spiaggia
(pure tua nipote di 8 anni portava il reggiseno…)
tu non m’abbia schifato fin dal principio.

padre separato quarantenne
in ogni caso,
in questo tramonto romano estivo che accarezza
con questa brezza che viene dal finestrino aperto
mentre mia sorella guida e canta
e la figlia s’è addormentata addosso al cane
una cosa vorrei dirtela.

è questa

PRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR.

(ogni riferimento a persone o fatti realmente avvenuti è puramente casuale)

((btw ringrazio ancora il padre separato quarantenne perchè prima e dopo esser diventato un personaggio del mio delirante panorama immaginario si è dimostrato una bella persona))


cultura dello stupro – guida per il gentiluomo

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quando abbiamo pensato di tradurre questo articolo – impresa portata a termine grazie all’indispensabile e sollecita collaborazione di Giulia Ranzini (caprette.org) e Daniela Finizio (nomerosso.blogspot.com) ancora non l’aveva fatto nessuna, ma tra il dire e il fare c’è stata di mezzo piú di una settimana e cosí non siamo le prime a pubblicarlo (in compenso la traduzione è integrale)

non è il testo perfetto – e probabilmente non rappresenta quella che è per noi la mascolinitá ideale – ma contiene parecchi stimoli interessanti e spunti di dibattito…
per questa ragione ha senso cercare di farlo girare il piú possibile e possibilmente farlo diventare argomento di conversazione

[la cultura dello stupro avvelena anche te - te ne sei accorto?]

nb: i link sono a siti americani e descrivono quel contesto (che con le dovute distinzioni è molto simile al nostro)

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Se sei un uomo, allora sei parte della cultura dello stupro. Sì lo so…suona male.
Questo naturalmente non vuol dire che sei uno stupratore. Ma che porti avanti le attitudini e i comportamenti cui comunemente ci si riferisce come cultura dello stupro.

Magari pensi “E basta, Zaron! Mica mi conosci! Figurati se ti lascio dire che sono una specie di fan dello stupro! Quello non sono sicuramente io.”
Ecco, so perfettamente come ci si sente. Ed è stata più o meno esattamente la mia risposta quando qualcuno mi ha detto che ero parte della cultura dello stupro. Suona davvero male. Eppure, immagina solo che cosa voglia dire muoversi per il mondo pensando che in qualsiasi momento potresti essere oggetto di violenza. Mi pare un po’ peggio! Insomma la cultura dello stupro è uno schifo per tutti. Ti invito però a non fissarti sulla terminologia. Non concentrarti sulle parole che ti offendono e non ignorare il problema che sta alla loro base – le parole “cultura dello stupro” non sono il problema. La realtà che descrivono è il problema.

Gli uomini sono i principali agenti e sostenitori della cultura dello stupro.
Certo, lo stupro non è solo commesso dagli uomini. Le donne non sono le uniche vittime — uomini usano violenza su uomini, donne usano violenza su uomini — ma la ragione per cui lo stupro è un problema degli uomini, IL nostro problema, è che gli uomini commettono il 99% delle violenze denunciate.

Quindi com’è che TU partecipi alla cultura dello stupro? Beh, odio dovertelo dire, ma è semplicemente perché sei un uomo.

Quando attraverso un parcheggio di notte e vedo una donna davanti a me, mi pongo il problema di far notare la mia presenza in un modo appropriato, in modo che a) lei non si spaventi b) abbia il tempo di calmarsi e sentirsi a proprio agio e c) se è possibile, io possa avvicinarla nel modo più innocuo possibile, così che possa percepire che non rappresento per lei una minaccia. Faccio questo perché sono un uomo.

Per farla breve, io cerco di rivolgermi a ogni donna che incontro per la strada, o in un ascensore, o sulla scala mobile, o ovunque, in un modo che la faccia sentire al sicuro. Mi piacerebbe che si sentisse esattamente come se io non esistessi. Ho preso coscienza del fatto che qualsiasi donna io incontri in un luogo pubblico non mi conosce, e quindi tutto ciò che vede è un uomo – un tipo, maschio, che si avvicina a lei d’improvviso. Devo tenere presente il suo senso dello spazio personale, e ricordarmi che la mia presenza potrebbe farla sentire vulnerabile. Questo è un fattore fondamentale – la vulnerabilità.

Non so te, ma a me non capita proprio spesso di sentirmi vulnerabile. Mentre invece questo è il modo in cui le donne passano la gran parte delle loro vite sociali: con un onnipresente, inevitabile senso di vulnerabilità. Fermati e pensaci un minuto. Immagina di sentirti sempre come se fossi a rischio di qualcosa, immaginati in una vita con la pelle di vetro.

Come uomini moderni sembra che il rischio dobbiamo cercarcelo. Ci scegliamo avventure e sport estremi che ci mettono artificialmente in pericolo. La nostra vulnerabilità non è altro che un gioco. In questa differenza sta il modo di vedere il mondo di uomini e donne.  (Questo ovviamente detto tenendo conto che esiste una attivissima comunità di atlete che fanno sport estremi. Solo che non avrebbero necessariamente bisogno di questi, per sentirsi in pericolo!)

Ora, io sono alto poco meno di uno e novanta. Mi alleno regolarmente e direi che sono in una forma decente, il che significa che quando sono fuori da solo la sera, difficilmente temo per la mia sicurezza. Molti uomini capiscono esattamente cosa intendo. La gran parte delle donne però non ha idea di cosa questo significhi — andare ovunque nel mondo, in qualsiasi momento del giorno o della notte, e avere la ragionevole certezza di non avere problemi. Nella gran parte dei casi, infatti, le donne sperimentano esattamente l’esperienza opposta.

cause di stupro

Una donna deve considerare dove sta andando, che ore sono, a che ora arriverà alla sua destinazione e a che ora se ne andrà, che giorno della settimana è, se in un momento dato si troverà da sola…le considerazioni vanno avanti all’infinito, perchè sono molte di più di quanto tu o io possiamo immaginare. Onestamente, non riesco nemmeno a concepire come si possa pensare tanto a come proteggersi in qualsiasi momento della propria vita. Apprezzo ancora di più la mia libertà di alzarmi e andarmene, giorno o notte, pioggia o sole, fuori città o al centro. Come uomini possiamo godere dell’immenso lusso del libero movimento, della libertà di scelta. Per capire la cultura dello stupro, ricordati che questa è una libertà di cui almeno metà della popolazione non gode.

Questa è la ragione per cui faccio uno sforzo e uso un linguaggio corporeo intelleggibile, che mi aiuti a minimizzare le paure e tutte le altre sensazioni che una donna può avere incontrandomi. Ti consiglio di fare altrettanto. È davvero il minimo che un uomo possa fare in pubblico per far sì che le donne si sentano più a loro agio nel mondo che condividiamo. È una forma di rispetto nei loro confronti e nei confronti del loro spazio.

Potresti pensare che sia ingiusto che noi dobbiamo pagare per il comportamento sbagliato di altri uomini. E sai cosa? Hai ragione. È ingiusto. Ma è colpa delle donne? O è colpa degli uomini che agiscono in maniera infame e ci fanno sembrare tutti degli aguzzini? Se quest’ingiustizia ti rode, prenditela con quelli a causa dei quali tu e delle tue intenzioni potete risultare sospetti.

Perchè quando valuta un uomo che non conosce, indipendentemente da quello che uno sia effettivamente capace di fare, una donna deve supporre che sia in grado di fare ogni cosa. Sfortunatamente questo significa che siamo tutti giudicabili a partire del nostro peggior esempio. Se pensi che questo tipo di stereotipi siano una merda pensa un attimo…come reagiresti a un serpente che ti viene in contro in un prato?

…come se ti trovassi di fronte a un serpente, vero? Beh, questo non è agire per stereotipi, bensì affrontare un animale per quello che è in grado di fare, e i danni che può provocare. Diciamo, le semplici regole della giungla. Dal momento che sei un uomo, le donne devono trattarti come tale.

Questa paura degli uomini, che è a un tempo comprensibile e ragionevole, è anche una tua responsabilità. Non l’hai creata tu. Ma non hai nemmeno costruito le autostrade. Ereditiamo tutti un mucchio di cose dalla società: alcune sono una figata, e altre sono la cultura dello stupro.

Dal momento che nessuna donna può perfettamente valutare te, o le tue intenzioni, a prima vista, presume che tu sia come tutti gli altri uomini. Il 73% delle donne vittime di violenza conosce il proprio stupratore. Ora, se lei non può fidarsi o cogliere del tutto le intenzioni degli uomini che conosce, come puoi pensare che riesca a comprendere te, che sei un perfetto sconosciuto? La prevenzione delle violenze non sta solo nell’insegnare alle donne come non farsi stuprare, sta nell’impedire agli uomini di stuprare.

La prevenzione delle violenze sta nel fatto che un uomo debba capire che dire “no” non significa “sì”, che quando una donna è troppo sbronza o fatta per rispondere non significa “sì”, che stare in una relazione non significa automaticamente “sì”. Più che concentrarci su come le donne possono evitare le violenze, o come la cultura dello stupro metta sotto processo uomini innocenti, forse dovremmo pensare: da uomini, come possiamo fare in modo che gli stupri non avvengano? Come eliminiamo le strutture mentali che minimizzano le violenze? E le attitudini che le tollerano?

Siccome ne fai parte, devi conoscere che cosa significa cultura dello stupro.

La cultura dello stupro è un ambiente nel quale lo stupro è un’evenienza comune, e nel quale la violenza sessuale verso le donne è normalizzata e giustificata nei media e nella cultura pop. La cultura dello stupro è portata avanti grazie all’uso di linguaggio misogino, all’oggettificazione dei corpi delle donne e alla glamourizzazione della violenza sessuale, il che crea una società che ignora i diritti e la sicurezza delle donne. 

Quando una donna mi ha detto per la prima volta che ero parte della cultura dello stupro, ero ovviamente in disaccordo. Come molti di voi, volevo dire “Aspetta, quello non sono io”. Invece ho ascoltato. Successivamente, ho contattato una scrittrice che rispetto, e le ho chiesto di scrivere un articolo con me, nel quale spiegasse a me, e ai lettori maschi, cosa intendeva per cultura dello stupro. Lei ha smesso di rispondere alle mie email.

All’inizio, l’ho trovato irritante. Poi, quando era chiaro che non avrebbe più risposto, mi sono davvero incazzato. Fortunatamente, ho imparato che non si dovrebbe rispondere subito quando si sta fumando di rabbia. I tuoni restano impressi, ma è la pioggia che fa crescere la vita. Quindi ho lasciato passare la tempesta, e ci ho pensato. Ho fatto due passi, cosa che mi porta sempre i pensieri migliori.

A un paio di isolati da casa mia, davanti a un autolavaggio, ho avuto un’illuminazione. Se la cultura dello stupro è così importante, devo capire da solo di cosa si tratta. Nessuna donna deve investire del tempo a spiegarmi una cosa che per lei è così automatica. Nessuna donna mi deve spiegazioni sulla cultura dello stupro solo perche io ne voglio sapere di più. Nessuna donna mi deve, a dire il vero, un cazzo. Mi sono reso conto di quanto profondo fosse il desiderio che una donna soddisfacesse un mio bisogno.  Persino la mia curiosità, un tratto di cui sono sempre stato fiero, era intrisa dello stesso tipo di presunzione maschio-centrica di cui si nutre la cultura dello stupro. Mi aspettavo di essere soddisfatto. Questa attitudine è il problema. Ho iniziato a leggere e proseguito finchè ho capito qualcosa della cultura dello stupro e quale fosse il mio ruolo al suo interno.

Questo è un elenco di esempi di cultura dello stupro:

  • Colpevolizzare la vittima (“Se l’è cercata!”)
  • Banalizzare la violenza sessuale (“L’uomo fa l’uomo!”)
  • Le battute sessualmente esplicte
  • La tolleranza verso le molestie sessuali
  • Gonfiare statistiche sulle false denunce di stupro
  • Discutere pubblicamente sul modo di vestire della vittima, il suo stato mentale, le sue ragioni e la sua storia
  • La violenza di genere gratuita nei film e in televisione
  • Definire la mascolinità come dominante e sessualmente intraprendente
  • Definire la femminilità come sottomessa e sessualmente passiva
  • Fare pressione sui maschi affinché “vadano a segno”
  • Fare pressione sulle donne affinché non appaiano fredde
  • Presumere che solo le donne promiscue vengano stuprate
  • Presumere che gli uomini non vengano stuprati,o che solo gli uomini “deboli” possano esserlo
  • Rifiutarsi di prendere sul serio accuse di stupro
  • Insegnare alle donne come evitare di venire stuprate, invece di insegnare agli uomini a non stuprare

Troverete facilmente che la cultura dello stupro gioca un ruolo centrale nelle dinamiche del nostro tempo. È al centro di tutte le nostre interazioni personali. È parte di tutte le nostre battaglie sociali, civili e ambientaliste. La cultura dello stupro non riguarda solo il sesso. È il prodotto dell’abitudine generalizzata alla supremazia maschile. La violenza sessuale è solo una delle manifestazioni di tale attitudine. Di nuovo, non fatevi spaventare dalla terminologia. Non aggrappatevi all’espressione “supremazia maschile”. La terminologia non è un problema. Il problema è che la cultura dello stupro colpisce tutte le persone coinvolte. Una nozione antiquata e patriarcale della società rende difficile per gli uomini di dichiararsi vittime di stupro tanto quanto spinge gli uomini a mostrarsi potenti e sessualmente intraprendenti. Gli uomini non dovrebbero sentirsi minacciati o attaccati quando una donna fa presente che esiste una cultura dello stupro – ci stanno solo parlando di un nemico comune. Dobbiamo ascoltare.

Ora che sai tutto questo, cosa puoi fare tu contro la cultura dello stupro?

  • Evita di usare un linguaggio che oggettivizzi o denigri le donne
  • Intervieni se senti qualcuno fare una battuta offensiva o che banalizzi lo stupro
  • Se un’amica ti dice di essere stata stuprata, prendila sul serio e supportala
  • Pensa criticamente ai messaggi dei media su donne, uomini, relazioni e violenza
  • Sii rispettoso dello spazio fisico altrui, anche in situazioni informali
  • Comunica sempre con le tue partner sessuali, non presumere il consenso
  • Definisci la tua propria mascolinità o femminilità. Non lasciare che siano gli stereotipi a guidare le tue azioni.

 

Cos’altro puoi fare contro la cultura dello stupro quando ne fai esperienza nella vita reale?

1. Gli uomini possono affrontare gli uomini

Non sto suggerendo la violenza. In effetti è proprio quello che stiamo tentando di evitare. Ma a volte un uomo deve affrontare un altro uomo, o gruppo di uomini, in alcune situazioni. Quando sono fuori e vedo un uomo dar fastidio a una donna, mi fermo per un attimo. Mi assicuro che la donna mi veda. Voglio che sappia che sono pienamente consapevole di cosa sta accadendo. Aspetto un attimo in modo che possa darmi segnale nel caso le serva aiuto. In alcuni casi, la coppia continuerà a litigare come se io fossi un albero. In altri casi la donna mi comunicherà chiaramente che avrebbe bisogno di un supporto e io affronto la situazione. Non ho mai dovuto diventare violento. Di solito, la presenza basta a far andare via il tizio o a lasciare che si spieghi, nel caso si conoscano. Cambia la dinamica. Ecco perché mi fermo sempre in questi casi. Qualsiasi sia la ragione. Mi assicuro che qualunque donna, che si trovi in una situazione potenzialmente violenta, una situazione che potrei non interpretare correttamente, sappia che ha l’opportunità di darmi un segnale se avesse bisogno di aiuto. Sono un fratello maggiore e ho una sorella piccola, questa reazione è praticamente istintiva.
Ma non mi comporto così solo con le donne. Ho fatto lo stesso per due uomini che stavano chiaramente avendo una discussione tra amanti. Ogni volta che vedete una situazione che potrebbe andare fuori controllo, e soprattutto se una persona sta gridando aiuto o è aggredita, dovete affrontare la situazione. Non dovete intromettervi per farli smettere. Ma interessatevi, siate coinvolti, provate a raccogliere le informazioni salienti, allertate le autorità, chiamate la polizia. Fate qualcosa.

2. Gli uomini possono correggere altri uomini

Se sentite un tizio dire qualche sciocchezza denigratoria in vostra presenza, anche se non c’è nessun appartenente a una specifica comunità che possa sentirsi offeso dall’affermazione, potete comunque dire qualcosa. Potete fare lo stesso se qualcuno usa un linguaggio misogino. Prendete parola. Dite al vostro amico o collega che battute di questo tono sono stronzate e che non avete intenzione di tollerarle.
Fidatevi, non perderete la vostra “patente di uomo”. Se avete più di diciannove anni e siete ancora preoccupati della vostra patente di uomo, non avete comunque capito cosa significa una mascolinità rispettabile. Non riguarda la servile approvazione degli altri – significa piuttosto essere “l’uomo adatto a te stesso” e fare la cosa giusta. Non immaginate quanti uomini vi rispetteranno per aver fatto ciò che loro avrebbero voluto fare, ma non hanno fatto. Io ne ho visti molti. Non sono una specie di sbirro della giustizia sociale, ma ho discusso e discuterei con gruppi di uomini. Più tardi, qualche tipo mi avvicinerà e mi dirà quanto mi rispetta per ciò che ho fatto. Io gli rispondo che prendere parola diventa più facile ogni volta che lo si fa. E vi giuro che è vero.
Non sto suggerendo di andare in giro facendo lo sbirro con chiunque. Non penso sia affar mio che tutti debbano vivano secondo i miei standard. Nessuno ha bisogno di voi che state lì a dirgli cosa pensate di ogni piccola cosa che dicono e se questa è conforme ai vostri parametri di consapevolezza sociale. Ma se un tizio dice qualche scemenza, e tu sai che lo è – sentiamo tutti quel genere di battute– puoi far sapere al tizio che la sua battuta sullo stupro non ha funzionato.

3. Uomini possono far chiudere il becco ad altri uomini

Immaginiamo che siete in un gruppo di uomini, e uno dei vostri amici inizia a fare il galletto con una ragazza – ditegli di andare a fanculo. Non sarete degli stronzi se parlate a favore di una ragazza. Almeno finché non provate a far colpo su di lei difendendola, non sarete il cavaliere in nessun caso. State semplicemente facendo la cosa giusta. Nessuna donna ha bisogno di un pagliaccio sessista che fischi e urli per la strada solo perchè non sa fare di meglio. La molestia di strada è tra le peggiori pubblicità possibili per la sessualità maschile. Quegli stronzi ci fanno sembrare dei fessi assoluti. Lo capite? Dobbiamo dare un taglio a questa merda.
Un passo importante è stato quando ho imparato a prendere parola di fronte a un gruppo di uomini. Dovete farlo anche voi. Innanzitutto perché volete avere rispetto di voi stessi. Altrimenti non sarete altro che l’ennesimo uomo patetico che permette a un tizio qualsiasi di maltrattare una donna in vostra presenza. Quando un uomo molesta con una donna, e tu non dici niente, lui sta trattando lei come un oggetto sessuale da due soldi che serve solo a soddisfarlo e trasforma te in uno stronzo che è disposto a permettere che questo accada in sua presenza, senza dire nulla.
Cosa penserebbe tuo nonno se ti vedesse in una situazione così? Sarebbe fiero di te? E tu sei fiero di te? Se l’orgoglio maschile serve a qualcosa, usalo per essere una persona migliore. Non essere lo stronzo silenzioso che segue la massa. Prendete parola se qualcuno molesta una donna in vostra presenza. Ditegli di chiudere il becco. Come uomini avete del potere. Usatelo.

4. Ci spetta definire standard per noi stessi, e quindi, per tutti gli uomini

Magari state pensando, “Zaron, amico, sii meno pesante, fratello! Urlare un complimento non è una cosa tanto terribile. Non credi che stiamo facendo una montagna da una tana di talpa? Ad alcune donne piace” Forse avete ragione. Forse ad alcune donne piace. Ma questo non importa. A me piace andare a mille con la macchina. A mio cugino piacerebbe farsi le canne in pubblico. Nessuno dei due può fare ciò che desidera. Sono cose che capitano se vivi in una società. Se trovate una donna a cui piacciono il fischio o la molestia di strada allora accomodatevi, solo fatelo all’interno della vostra dinamica. Quando siete in pubblico rispettate lo spazio fisico e mentale degli altri.

Non limitarti ad essere un maschio. Sii un essere umano.
Quando capitano occasioni come #YesAllWomen e donne di tutto il mondo condividono le loro esperienze, i traumi, le storie e i propri punti di vista, non serve che noi uomini entriamo nella conversazione a dire la nostra. In quei momenti, dobbiamo solo ascoltare, e riflettere, e permettere alle loro parole di cambiare la nostra prospettiva. Il nostro compito è chiederci come possiamo fare di meglio.

mi Relato Marrano…

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Date la vuelta.
Quiero mirarte a los ojos mientras te la meto.
Quiero escuchar tu voz que se hace pedazos, tus ojos apretarse con estrépito, tu espalda enarcándose mientras se te para el aliento.

Levanta las piernas y hazme sitio.

(imagen guardada de un tumblr que ya no existe)

Así empieza Las apariencias engañan, el primer relato que he escrito sin pasar por mi lengua madre (to’ un desafio, nenas…)

Es parte de una obra colectiva, Relatos Marranos, que dos curadoras y una editorial muy valientes están intentando sacar a la luz gracias a una financiación participativa (un crofandin de los de toda la vida, vamos :) ).

Junto conmigo hay muchas otras marranas que han escrito e ilustrado y producido arte postpornografico para componer una pequeña joya que os dará que pensar, discutir… y follar como no habeis hecho nunca antes.

Faltan 10 dias para que la campaña se cierre, y todavia necesitamos patrocinadores y patrocinadoras que financien el libro por adelantado. Su confianza nos permitirá pagar la imprenta, y sin ella no habrá libro ni na…

obra de Mery Sut para Relatos Marranos

Relatos Marranos legará para calentarnos las Navidades, acompañarnos en las noches frias del invierno y encendernos dentro la primavera del sexo fuera de convenciones, costricciones, reglas y obligaciones.

Yo me muero de ganas de tenerlo entre las piernas!!!!!
(pardon, las manos, queria decir las manos)

** la spedizione in Italia non suppone un sovrapprezzo, e se ancora parlate poco lo spagnolo vi assicuro che questa sará una maniera eccellente di impararlo meglio ;)

SONO STATA A UN CABARET POSTPORNO – e da allora continuo a pensarci… (di Grazia Marostica)

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(contributo critico ricevuto attraverso la Rete, lo pubblico con piacere con molti ringraziamenti all’autrice)

 

26 settembre 2014 – Magazzino 47, Brescia.
Becchiamo gli ultimi posti infondo alla sala appena in tempo per accorgerci che un corpo nudo sta avanzando verso il palco, sale e si gira verso di noi mentre una voce fuoricampo cita Itziar Ziga autrice di “Devenir Perra”.
Slavina alza un sopracciglio e ci lancia un sorrisino furbo che dice “èh si, eccomi qua”, tutta ignuda e senza disagio, ti trasmette una sensazione piena e propria solo di chi ha fatto totalmente pace con il proprio corpo.
Ma adesso che fa? Balla, ci farà ridere?
Lei si presenta e nemmeno ci fai più caso che è nuda… e poi la sua voce è così bella…
scoppiamo a ridere quando indossa una parrucca bionda e uno le urla “Sembri Donna Summer” e la sua risposta pronta è “Mah, mi sa che sei daltonico…”

al Magazzino47 di Brescia (foto di Pamela Marelli)

al Magazzino47 di Brescia (foto di Pamela Marelli)

Quello che ci racconta nel suo show “Devenir Perra” è per me in diretta contrapposizione a tutto quello che i media e la società ci propinano da quando siamo piccole in termini di rappresentazione di genere delle donne, il sesso sporco, onnipresente, pornificato e sconveniente delle donne… che in questa serata si trasforma nelle mirabolanti e divertenti avventure sessuali di Pretty Ketty e i suoi pompini a temperino, che trasformano i membri maschili in forme fantasiose rendendo le mogli e le amanti contentissime e ispirate…

Slavina racconta altre storie estratte dal suo libro “Racconti per ragazze sole o male accompagnate” (Ed. Perrone, 2012), dove il sesso non è un eventualità sconveniente e nemmeno una forza distruttiva, ma un’energia generosa, Slavina parla di generosità delle puttane, geniali sex worker dal sorriso smagliante che portano pace nella guerra dei sessi, delle razze e delle religioni… è bello sapere che c’è chi il sesso lo vede così.

Ora è tornata coi capelli corti e occhiali da vista, sembra un bel ragazzo, cerchiamo di allungarci il più possibile per vedere meglio quando brandisce dei dildo che noi dobbiamo scegliere, votiamo Deleuze perchè ci è piaciuto sapere come usarlo con i ragazzi (gnammy) ma vince Maradona, quello più grosso; nonostante ciò Slavina indossa l’amato Deleuze e continua lo show ricordando un’amica, la sua ultima lettera, spassosa e triste, prima di scomparire, dopo aver dedicato anni all’attivismo e ci scappa una lacrima alquanto salata.

al Magazzino47 (Brescia) foto di Pamela Marelli

al Magazzino47 di Brescia (foto di Pamela Marelli)

Verso metà show mi accorgo che anche la mia amica si è innamorata della Slavina, mi sento orgogliosa.
Ci sembra di sentirla ora, questa cagna interiore, assopita… e insieme sento la voce della Pinkola Estes che ci suggerisce una chiave di lettura:
“Le storie sono disseminate di istruzioni che ci guidano nelle complessità della vita.Talvolta varie stratificazioni culturali disarticolano le storie; i cantastorie del tempo talvolta “depuravano” le loro storie per riguardo ai religiosi fratelli. Con il passare del tempo, antichi simboli pagani furono ammantati di significati cristiani, sicché la vecchia guaritrice di un racconto diventava una strega malvagia, uno spirito si trasformava in un angelo, un velo per l’iniziazione diventava un fazzoletto o una bambina di nome Bella veniva ribattezzata Addolorata.Venivano omessi gli elementi sessuali. Creature e animali soccorrevoli erano spesso trasfromati in demoni e uomini neri.Ecco come molti insegnamenti sul sesso, l’amore il denaro, il matrimonio, il parto, la morte e la trasformazione sono andati perduti. Ecco come anche le fiabe e i miti che spiegano gli antichi misteri delle donne sono stati pure ricoperti; le fiabe sono state purgate dello scatologico, del sessuale, del perverso (e dei relativi avvertimenti) del precristiano, del femminile, delle Dee, dell’iniziazione, delle medicine per vari disturbi psicologici e delle istruzioni per le estasi spirituali”.

“Diventare cagne” significa dis-educarsi, riscoprire il potenziale politico e sovversivo del sesso e terrorizzare quelle narrazioni di stampo patriarcale del “genere femminile” diviso tra sante e puttane, modelli reificati e stereotipati con cui i media travestono i loro messaggi, e popolano la letteratura per l’infanzia… pensate a certi personaggi Disney in perenne attesa di un bacio da uno sconosciuto necrofilo, mentre incoscienti in una bara, o in una torre, come delle sfigate, o accudendo sette figli nani.
Mi viene da pensare alle prime lezioni di educazione sessuale, che altro non sono che rappresentazioni del sesso riproduttivo, e a quanto spesso le prime informazioni sul sesso arrivino dal mondo del porno “tradizionale”, primo metro di misura adottato dai ragazzini per vedere le donne.
E che peso, che vergogna sapere di avere quel corpo che viene rappresentato sempre così.

Quello delle cagne non è porno, ma post-porno.
Ebbe inizio in America quando un giorno una ex pornostar, Annie Sprinkle, disse “La volete vedere la fica? Eccola!”… tutto un via vai composto di gente di ogni età che si succedeva di fronte alle sue cosce divaricate per vedere con una pila dentro la sua vagina con l’aiuto di uno speculum, ed eccola lì la cervice, chi l’avrebbe mai detto che era così… bella eh… sembra quasi.. mmm non ve lo dico. (E poi vai a scoprire che in Giappone è un rito tradizionale)
Si può dire che questa fu la prima performance Post Porno dal titolo “Cervice Pubblica”; Annie iniziò a lavorare nel mondo della pornografia ai tempi di “Gola Profonda” e da attrice hard divenne regista e performer con l’intento di smascherare il maschilismo insito nella pornografia fino ad allora realizzata. Divenne la pioniera della post pornografia riappropriandosi di questa tecnica con cui realizzò i primi porno per donne, una delle tante pratiche di sperimentazione di nuove forme di desiderio del femminismo pro-sex.

al Magazzino47 di Brescia (foto di Pamela Marelli)

al Magazzino47 di Brescia (foto di Pamela Marelli)

Secondo Beatriz Preciado la pornografia è una tecnica politica di produzione del piacere, dove le donne, le minoranze sessuali, sono state emarginate ed escluse come “soggetti” del piacere, ovvero sono sempre state solo “oggetto” della rappresentazione del piacere.
Il controllo di questa tecnica così potente della produzione del piacere è in mano ai soli destinatari di questo tipo di immagini, ovvero gli uomini eterosessuali bianchi.
Secondo Beatriz Preciado chi usufruisce di un tipo di pornografia convenzionale e commerciale è difficilmente soddisfatto di quello che vede, e se lo è sta subendo un gusto, un desiderio costruito, non il suo personale.
Mentre, infatti, l’industria pornografica ha il solo scopo di imporre un modello, il postporno si impegna a dar voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi.
Il postporno si rivolge alle persone comuni e spinge a riflettere, a rimettere in
discussione i modelli sessuali imposti e ad inventare nuove forme condivise, collettive, visibili, aperte.
L’obiettivo è certamente politico perché mira a scardinare le dinamiche di genere e a creare un movimento dove si possa ricostruire in maniera liberata e partecipata ciò che è considerato privato e vergognoso.
Il Postporno è divertimento, dinamicità, scoperta e condivisione, è la nostra rivoluzione sessuale.

“I modernisti post porno celebrano il sesso in quanto forza che nutre e infonde vitalità. Ci dedichiamo ai genitali come a una parte non distinta dalla nostra anima. Utilizziamo parole, immagini e atti sessualmente espliciti per comunicare le nostre idee ed emozioni. Denunciamo la censura sessuale in quanto inumana e ostile all’arte. Ci rafforziamo con questo atteggiamento nei confronti del sesso. E amando la nostra identità sessuale ci divertiamo, guardiamo il mondo e resistiamo”.
Post Porn Modernist Manifesto, Annie Sprinkle e Veronica Vera (1989).

 

 

 

Qualche lettura consigliata:

Beatriz Preciado:
– “Testo Junkie”
– “Pornotopia”
– “Manifesto Contra-sessuale”

Clarissa Pinkola Estés:
– “Donne che corrono coi lupi”

Slavina:
– “Racconti per ragazze sole o male accompagnate”

Annie Sprinkle:
– “Post Porn Modernist”

Itziar Ziga:
– “Devenir Perra”

Catherine Blackledge:
– “Storia di V, biografia del sesso femminile”

Aiuto! Non sono monogamo… cosa ci faccio in questo Centro Sociale?

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inauguriamo con questa lettera LA POSTA DEL CULO, spazio di consulenze su temi legati a sesso, amore e altre calamitá.
se anche voi avete bisogno di un consiglio, una predica o un calcioinculo virtuale potete scrivermi a slavina@insiberia.net

mais amor

Cara Slavina
spero che non ti offenda il fatto che ti chiamo cara, lungi da me il voler invadere il tuo spazio ma per le cose che scrivi e ció che rappresenti mi sei molto cara, quindi te lo dico.
(che non si sa mai, con voi femministe…)
Ti scrivo perché mi sembri l’unica persona che possa comprendermi in questo momento della mia vita. Sono senza punti di riferimento e dopo aver creduto per molti anni nella partecipazione, nella condivisione, nella forza della collettivitá… oggi mi sento solo come un cane.
Ti spiego in breve i fatti:
faccio parte di un collettivo. Ci vogliamo tutti bene, siamo amici, viviamo anche alcuni momenti belli di relativa promiscuitá (non tra maschi peró: nel nostro gruppo non c’è nemmeno un frocio – cioè volevo dire un omosessuale). Ci facciamo un sacco di discorsi sul superamento delle barriere e ci capita di leggere e commentare in maniera accanita i testi sacri della teoria queer (questo per dirti che non siamo un gruppo di “antichi”, anzi… la teoria la sappiamo bene)
Peró da qui a mettere in discussione alcuni capisaldi di quello che voi fomentone chiamate il regime dell’eteronormalitá, ce ne passa. L’ho sperimentato di recente sulla mia pelle.
È successo un flirt tra me e una compagna, lei fidanzata, con un nostro compagno. Lei non voleva poi dire niente a lui, mentre io si, ma per rispetto di lei ho evitato. La storia è ovviamente emersa e ora lui (e altri) mi odiano. Dicono che ho tradito la fiducia dei compagni…
Ma di quale fiducia parlano? Il problema per me é a monte: relazioni tra compagni impostate come matrimoni e individui proprietarizzati dai partner. E ammesso che ció non sia una gigantesca incoerenza, il punto è che non ero io che avevo un patto con qualcuno, non ero io ad aver promesso (in maniera piú o meno esplicita) la mia *fedeltá*… e allora perchè sono io lo stronzo e il traditore?
Io vorrei tanto un mondo senza coppie chiuse.
Secondo te chiedo troppo?
Dov’è che sbaglio?

PS non è che per caso hai il numero di telefono di Valentina Nappi?

Un saluto a pugno chiuso
Deluso ’89

Caro Deluso,
ti ringrazio per la fiducia e comincio ad analizzare il tuo caso proponendoti un po’ di buona pratica femminista. Quello che definisci “flirt” è stato un approfondimento del rapporto che avevi con la compagna di quel compagno, che ha generato un livello maggiore di empatia tra voi e una confidenza e la voglia di prendersi un po’ piú cura l’uno dell’altra – o si è trattato solo di qualche (speriamo almeno ricca) scopata?
Questo elemento di riflessione forse non aggiungerá nulla all’interpretazione generale dei fatti (le sovrastrutture ci dominano, certo) peró è un primo passo verso una comprensione piú completa della questione. Sapere cosa ci hai messo tu in questa relazione (a parte il cazzo) è una forma di quello che noi femministe chiamiamo il partire da se’, che spesso molto somiglia all’autocritica, territorio abbastanza poco frequentato in area di movimento.
Tu mi scrivi perchè sai che in me troverai una sponda solida al discorso “la coppia chiusa è una merda”, ma io e te sappiamo bene che nelle relazioni tra persone spesso entrano in gioco dei fattori che vanno al di lá delle deficienze contestuali. Ci possono entrare. Ci devono entrare. Per come la penso io, la vera Rivoluzione comincia da lí (o finisce…).
Ma veniamo a quello che ti interessa e che puó essere importante condividere: la dinamica collettiva.
Se sei nato nel 1989, potresti non aver sofferto abbastanza del rinculo che ha traumatizzato molti e molte militanti cosiddette di sinistra, quindi te lo dichiaro senza indugiare oltre: la teoria del Socialismo in un solo paese non ha funzionato. Che cosa voglio dire usando questa arditissima e superficiale metafora? Che in un gruppo di compagne di compagni (e viceversa) non puoi pensare di essere l’unico promiscuo senza incorrere in qualche fragoroso fallimento.
Io non credo che i tempi non siano maturi per un cambio radicale nella nostra maniera di immaginare e vivere le relazioni, dandogli il giusto e necessario peso politico, peró la realtá dei fatti spesso mi dá torto.
La Rivoluzione che tanto agognamo si ferma quasi sempre sulla soglia della camera da letto, spesso non entra proprio in casa.
E di chi è la colpa?
Ti racconteró un aneddoto di quelli che secondo me sono fondanti, nella nostra cultura e nel nostro immaginario di post-la qualsiasi.
Quasi un secolo fa, nel 1920, l’attivista femminista Clara Zetkin ebbe un’emozionante conversazione privata con il compagno Lenin. Clara lavorava in Germania, si occupava della formazione e dell’organizzazione delle compagne operaie e oltre ai temi legati ai diritti del lavoro si era avventurata proprio nel terreno minato del matrimonio e della sessualitá, producendo una serie di opuscoli informativi (che non ho avuto il piacere di leggere ma che penso vertessero su contraccezione e cose simili, non sul poliamore…) che vennero aspramente criticati e censurati dal grande padre della Rivoluzione tm.
Lenin fu brusco e deciso nel negare l’importanza della questione sessuale, definendola una necessitá borghese e secondaria rispetto alle esigenze del proletariato mondiale. E Clara si fece convincere a mandare al macero tutti quei cazzo di volantini, con tanti saluti e pure ringraziando la luciditá del compagno Lenin.
Ora tu mi dirai, ma che c’entra questo? Siamo nel 2014, il sesso è un campo di studi ormai complesso e stratificato, abbiamo saputo, abbiamo sperimentato, possiamo tutto – in teoria.
In pratica le relazioni sessoaffettive non riescono ad essere quasi mai (il quasi è l’ottimismo della volontá…) una prioritá per le compagini in lotta per un mondo migliore.
Ci provano alcuni gruppi queer, ne parlano molte femministe, ma nel quotidiano è molto raro che si riescano a mettere veramente in discussione le strutture del familismo patriarcale e dell’etero(o omo)norma e a farlo in maniera politica, trasparente, aperta e condivisa.
Per quanto mi riguarda sono convinta della potenza non solo simbolica dello slogan del fu Subcomandante Marcos “Un esercito di amanti è un esercito invincibile” mentre credo che un esercito di coppie sia un incubo orrendo.
Ma le cure d’urto, in questo settore specifico, non funzionano. E molti e molte che si definiscono moderni e militanti in realtá credono ancora al “Tra moglie e marito non mettere il dito”, quindi il mio consiglio spassionato, caro Deluso, è di stare attento a dove metti il dito, perchè se adesso ti pesa l’ostracismo del tuo gruppo, alla prossima il dito te lo tagliano.
E la rivoluzione sessuale ha bisogno di uomini, donne e favolositá intere. Non sai quante cose bellissime si possono fare con un dito (o forse sí?).
Scegli meglio le tue complicitá sessoaffettive, costruisci reti, non ti fermare ai due colpi di una sera: piú che di parole, teorie e aneddoti la distruzione dei modelli patriarcali di relazione ha bisogno di buoni esempi e buone pratiche. Delle dimostrazioni nella realtá che è possibile amarsi e stare insieme senza rivendicare un diritto di proprietá sul corpo e i pensieri del nostro oggetto di desiderio e d’amore.
É un cammino lungo e complicato e se scegli di percorrerlo non aspettarti risultati a breve termine ne’ un successo immediato. Quello che ti posso garantire io è che arricchisce e riempie e spesso ripaga delle frustrazioni che la lotta tm ci elargisce a piene mani.
E nessuno sgombero te lo puó togliere.

PS Chiedi ai compagni di Microminchia.

buoni amori e buone lotte,
zia Slavina

Devenir babbiona – qualche consiglio pratico per milf in erba

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(se volete potete scrivermi a slavina@insiberia.net – ma poi non ditemi che non volete essere pubblicate perchè consulenze private non ne faccio, abbiate cura di occultare i dati sensibili che vi riguardano se non volete essere riconosciute)

Cara Slavina, mi sento un po’ ridicola, alla mia etá, a scrivere a qualcuno che conosco appena per chiedere un consiglio… peró qualcosa nel profondo mi dice che puoi capirmi e che mi prenderai sul serio.
Mi rimane comunque difficile affrontare l’argomento, quindi per introdurlo utilizzeró un supporto multimediale

Ti giuro che era solo ieri. Cioé, io davvero me lo ricordo come se fosse ieri, non è mica un modo di dire… e invece è passato un sacco di tempo, piú di 10 calendari. Era il 2002 quando usciva questo video e io, pur non essendo giá “di primo pelo” fui sinceramente colpita dalla scelta del cantante (uno dei sex symbol dell’epoca).
Quasi posso risentire nella testa la frase che risuonó sonora “Anvedi che babbiona che ti sei rimorchiato Robbie…” All’epoca i quarant’anni mi sembravano piú lontani della Nuova Zelanda.
Invece è finita che in Nuova Zelanda non sono mai stata e i quaranta sono arrivati. E anche se sono (secondo la definizione corrente) ben portati, io me li sento tutti.
Sono madre di una bambina che sta per finire le elementari, ho un ex marito con cui sono in rapporti cordiali, faccio un lavoro malpagato e precario e mi tengo su con lo yoga.
E ho una disperata voglia di vivere e di amare ancora.
Questo è il punto dolente: da qualche settimana ho conosciuto un ragazzo. Frequenta la mia stessa palestra e tra una battuta e l’altra si è creata una certa confidenza, che ci ha portati al piú felicemente ovvio dei finali: una serie di scopate che mi hanno rimessa al mondo e fatto credere allo slogan “la vita comincia a quarant’anni”. E che voglio di piú dalla vita? Sono essenzialmente due le questioni che mi fanno stare male.
Purtroppo la felicitá di questa che voglio chiamare relazione si ferma al privato. Di uscire con il mio amico e presentarlo ai miei amici di tutta la vita… mi vergogno. Come ti ho detto lui è molto piú giovane di me e ho paura di venire etichettata come la tipica babbiona in cerca di carne fresca (scusa la brutalitá, potevo anche usare un bel giro di parole ma la sostanza è questa – perchè se lo dicono di Demi Moore figurati se non lo dicono di me…).
La seconda questione è meno sociale e piú personale. Ho paura.
Paura di diventare dipendente e soffrire perchè non posso piú farne a meno, paura che arrivi una ventenne con le tette come missili e il trikonasana piú aperto del mio e se lo porti via, paura che per noi non esista un futuro, paura che mi stia solo prendendo in giro… e ovviamente ho paura che le mie paure mandino all’aria quello che ho adesso, questa connessione cosí bella, preziosa e fragile.
Che cosa dovrei fare secondo te?
Pantera ’71

Cara Pantera, goditela.
Adesso te lo spiego meglio ma tu intanto memorizza questa parola e fissatela bene in testa come se fosse una posizione dello yoga. GO-DI-TE-LA. Senti come suona bene? Io fossi in te, lo farei diventare una specie di mantra. Vivendo una condizione esistenziale per molti versi simile alla tua, è quello io che faccio (o cerco di fare).
Infatti nonostante i capelli strani, l’abbigliamento informale e l’ostentato brio, giá da alcuni anni mi è toccato in sorte l’appellativo (non richiesto) di signora, e un po’ babbiona mi ci sento… visto anche che mi capita abbastanza spesso di provare delle simpatie travolgenti – a volte ricambiate – per persone molto piú giovani di me.
È relativamente poco tempo che sperimento la sensazione di essere “la vecchia” della coppia, ma qualche idea su come gestire il disequilibrio me la sono fatta (io poi da giovane di babbioni me ne sono passati un bel po’, ho anche questo di vantaggio).
Comincio dalla questione personale, perché credo sia piú importante lavorare sulle tue paure piuttosto che sull’idiozia dei tuoi amici. Come donne, ci insegnano ad aver paura di tutto – tranne che delle cose delle quali dovremmo realmente avere paura (il sessismo, l’inquinamento, l’ingiustizia e un lungo eccetera).
Le relazioni nascono, a volte esplodono e ci travolgono e poi si trasformano. È nel ciclo naturale delle cose molto piú che l’idea perversa dell’amore eterno e sempre uguale a se stesso. L’amore io lo vedo piú come un ponte che ti puó portare piú o meno lontano, piuttosto che una casa dove inchiodarsi finchè morte non ci separi.
Quelle che ti sto per elencare per me sono delle vere e proprie regole, che ovviamente sono fatte a mia misura e potrebbero non andar bene per te – ognuna dovrebbe darsi le sue, secondo il senso piú profondo della parola autonomia – peró possono essere degli spunti. La prima regola, per quanto mi riguarda, è che l’amore deve valere l’allegria, non la pena (questa te la illustro anch’io avvalendomi di un supporto grafico).

l’allegria, non la pena

Che significa? Prima di tutto, che quello che ti stai scambiando con il tuo giovane amico è amore. Il contatto profondo delle scopate che ti hanno rimesso al mondo è una forma di amore, e finchè dura sará amore, perchè non chiamarlo col suo nome?
Con la maturitá mi è capitato di cambiare idea su un sacco di cose. Da giovane ad esempio, odiavo il detto “Chi si accontenta gode” e come il mio amico Warbear lo masticavo male in bocca trasformandolo in un apocalittico “Chi si accontenta muore”. Oggi non la penso cosí. Accontentarsi significa essere contente di quello che una ha, valorizzarlo, potenziarlo. E goderne. E le relazioni hanno valore soprattutto per quello che noi ci mettiamo: se siamo le prime a svalutarle, non ci daranno mai la soddisfazione che cerchiamo (sempre se quello che cerchiamo è la soddisfazione… ma questo pensiero merita un approfondimento e ora non mi dilungheró).
Collegata strettamente alla prima regola (e al suo corollario sulla soddisfazione) è la seconda: non coltivare frustrazioni, non trastullarsi nella sofferenza d’amore. Se un amore ci fa soffrire, è perchè non funziona. E se non funziona (e questa cosa, se interpretiamo i segni che ci da’ con onestá, si capisce da subito) meglio smollare e farlo senza pensarci troppo. Se non riesci a farlo per te, fallo per il bene di tua figlia (mi gioco la carta che puó sembrare disonesta della tua maternitá perchè è parte della tua identitá – e te lo spiego meglio dopo).
Anche io ho una figlia che ha piú o meno l’etá della tua. E a lei ho insegnato, con tutta l’attenzione e le premure possibili (ma anche senza risparmiarmi lacrime), che nel mondo esistono la morte, la malattia, la guerra. Da madre migrante le ho insegnato anche la nostalgia e il senso di mancanza che si prova vivendo lontane dalle persone che ci sono care. Ma la cosiddetta sofferenza d’amore mia figlia non la imparerá da me.
Se dall’incontro con una persona con cui ho una relazione torno a casa frustrata, insoddisfatta, triste, incapace di starle a fianco e di giocare, quello per me è il segno inconfutabile che quella relazione non va bene. Dove non arriva la mia onestá intellettuale, arriva il confronto con lei. L’amore è la forza che tutto moltiplica. Se invece sottrae, è perché qualcosa non funziona come dovrebbe.
La terza regola è tecnica: la disparitá di energie che ho sperimentato nell’incontro con persone al di sotto dei 25 anni mi spinge a rimandare l’approfondimento della conoscenza a un indeterminato poi. Mi è capitato di fare delle brutte figure, di non reggere proprio il ritmo, se capisci cosa intendo ;) ma tu fai yoga, magari sei piú allenata di me, quindi regolati di conseguenza.
La quarta regola viene per ultima, ma non è la meno importante: non aver paura delle ventenni con le tette come missili. Con loro non sei in competizione, non ti ci mettere proprio. A meno che non abbia soldi da investire in una chirurgia plastica, tu le tette come missili non ce le avrai mai piú.
In cambio hai un sacco di altre cose che non ha una ventenne. Hai esperienza, dovresti avere la maturitá (e non impazzire per un messaggio di uozzap non ricambiato, per esempio) e – forse questo non lo sai, ma te lo dico io – sul mercato del sesso hai un valore aggiunto (quello di essere madre) che forse sottovaluti.
Nel tuo essere madre sessuata c’è un potenziale erotico che – soprattutto nei paesi di cultura cattolica e sessuofobica come il nostro – sbaraglia qualsiasi tetta dura, se te lo sai giocare.
Vivi i tuoi quarantanni con tutta pienezza e la gioia: le tue rughe, le tue smagliature, le tue mollezze raccontano un sacco di storie che sicuramente, se peschi bene, qualcuno saprá ascoltare [e te lo dico sapendo che quando un giovanotto mi guarda con occhi sognanti e mi dice “Che belli i tuoi capelli bianchi” il primo impulso è quello di tirargli un cartone].

Abbi fiducia in te e nella tua bellezza (che non dipende dai chili di antirughe, anticellulite, antismagliature, antivita che ti schiaffi addosso). Goditi le tue fortune, riconoscile e condividele.

E viviti con gioia il presente e l’amore che hai, qualsiasi forma prenda.

Riguardo alla paranoia della carne fresca, capisco la tua preoccupazione.
Ne comprendo il versante altruista, soprattutto. Io il momento in cui mi definirono carne fresca me lo ricordo ancora, e ancora mi brucia a vent’anni di distanza.
Quindi ti suggerisco, se proprio non ti va di cambiare amici, di introdurre con loro l’argomento con dolcezza implacabile, spiegando che quello che cerchiamo noi babbione, piú che la carne fresca sono cervelli freschi, possibilmente liberi dal sessismo stratificato di certi vecchi che non sono diventati mai grandi.

Non so se la vita comincia a quarant’anni, so che se siamo fortunate continua.
Ma sta a noi farla continuare per il verso giusto.

Ci vediamo in Nuova Zelanda, compagna!

Slavina #40elode

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