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Channel: slavina – malapecora
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Fica, femminile plurale

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Ho fatto un sogno.

Ho sognato un esercito di fiche nude e pronte alla battaglia.
Erano fiche di tutti i colori e di tutte le taglie.
Fiche ricce, fiche lisce, fiche appena uscite dal barbiere.

Fiche fragranti e profumate dopo la doccia
Fiche aperte come fiori, fiche anguste e diffidenti, fiche puzzolenti.
Fiche a ventosa e fiche a grappolo,
Fiche coi denti, fiche amare, fiche con l’antifurto e fiche chiuse a chiave.

Fiche come piante carnivore
Fiche bagnate e fiche fradice
Fiche che dicono Vattene e fiche che urlano Vieni!

Fiche amazzoniche e fiche calve
Fiche con la cresta
Fiche appiccicose come un dolcetto giapponese
Fiche bugiarde e traditore

Fiche parlanti, fiche che borbottano,
Fiche che eiaculano sul mondo la loro rabbia e il loro amore

Fiche tremanti di desiderio e fiche frementi di rabbia
Fiche spalancate sul mondo, fiche curiose, fiche zingare
Impepate di fiche e fiche di puttana

Fiche che non avevano mai visto il sole
Fiche dimenticate in tasca
Fiche fiere e combattive
Fiche che non sapevano di essere fiche e fiche che avevano perso la strada di casa

Fiche placide e fiche inquiete
Fiche arrendevoli e fiche ribelli

Fiche acide perché troppo generose
Fiche dalle labbra gonfie e doloranti dopo una buona sbattuta

Fiche che non potevi non entrarci dentro
Fiche labirintiche
Fiche che non volevano lasciarmi più andare

Fiche a spruzzo, fiche rotte
Grandi fiche e patatine

Belle fiche come quelle che vi auguro di mangiare stanotte,
accompagnate da un buon bicchiere di vino.

Salute! (di Tea Guarascio)

Salute! (foto di Tea Guarascio)

*testo scritto per il Bibidi Bobidi Burlesque dell’edizione 2013 di Enotica, festival del vino e dell’eros del Forte Prenestino.


Simulacri di piacere – laboratorio di performance

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Un simulacro designa un’apparenza che non rinvia ad alcuna realtà sotto-giacente, e pretende di valere per quella stessa realtà. Un simulacro è una finzione piú reale del reale.

 

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Tira fuori le ovaie – Antonella Ius

Quando ricerchiamo il piacere spesso non siamo consapevoli del fatto che inseguiamo un fantasma.
Uno spettro si aggira per le nostre camere da letto… è ora di aprirgli la porta e portarlo a passeggio.

Ormai sappiamo che il genere è “una copia senza originale”: l’idea del piacere socialmente condivisa è una costruzione ancora piú autoritaria, che allunga le radici nei modelli farmaco-pornografici che abbiamo sussunto fin dall’infanzia e che crediamo autentici e nostri.

Questo laboratorio vuole creare uno spazio di discorso che renda la sfera del piacere comunicabile, attraversabile, contestabile e condivisibile, al di lá di timori e costrizioni socio-culturali.
La proposta di ricerca e azione si basa sulla messa in comune e il remix selvaggio di fantasie e pratiche legate alla sfera del godimento (sensuale, sessuale e contra-sessuale) per realizzare, cooperando collettivamente, un ambiente performatico immersivo grazie al quale poter sperimentare forme di piacere inedite socializzando immagini ed emozioni.

 

 

Ad ospitare questa esperienza carnale e trascendente sará il MissVago Diverso Bistrot di Bologna, nei giorni 19 e 20 aprile, dalle 18.30 alle 21.
A conclusione del laboratorio, sabato 20 a partire dalle 22.30, si svolgerá un happening aperto al pubblico.

Per iscrizioni e maggiori informazioni manifestatevi al solito indirizzo ziaslavina@gmail.com

week end ECOSEX in Etruria

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a brand new week end postporno!

questa volta per rilassarci e ricrearci ci ritroveremo in campagna, in una bella casa sul versante occidentale dei Monti Cimini, a una sessantina di km da Roma.

come oche selvagge...

come oche selvagge!


Immagina un finesettimana in un posto caldo e accogliente, dove sperimentare narrazioni radicali sul corpo e il sesso in più formati.

Immagina di incontrare altre donne curiose e interessate al confronto su questi temi.

Immagina un ambiente protetto, in cui poterti svincolare da quelle inibizioni e costrizioni che agiscono nel profondo e pesano sul tuo quotidiano – nei gesti, nei movimenti, nelle parole che non riesci a dire.

Immagina di sentirti libera…

Il confronto e la sperimentazione saranno incentrate sull’ecosessualitá – ovvero la volontá e capacitá di vivere il piacere in continuitá con l’ambiente naturale che ci circonda.
Sono previsti laboratori di scrittura erotica, momenti di rilassamento collettivo (con escursione termale notturna!), set fotografici e (s)drammatizzazioni.

A soddisfare il nostro appetito saranno le streghe di Corporea, che durante la tre giorni saranno presenti offrendoci un’alimentazione sana e vegana – oltre ad altre belle sorprese…

Quando? dalla sera di venerdí 5 luglio al pomeriggio di domenica 7 luglio
Dove? in provincia di Viterbo (si arriva in treno ma cercheremo di organizzare delle macchinate)

Come si dorme? ci sono pochi posti letto, sono necessari materassino e sacco a pelo (pigiama party style, privacy poca, molta simpatia)

Quanto costa? dai 90 ai 100 euro con 11 partecipanti paganti – dagli 80 ai 90 euro con 15 partecipanti (la metá dei soldi andranno versati 10 gg prima perché essendo un evento autoprodotto avremo bisogno di contanti per la spesa)

Passa la voce alle amiche che possono essere interessate!

Per prenotare o avere maggiori informazioni e dettagli, scrivi a ziaslavina@gmail.com

IMPORTANTE: la data limite per iscriversi al laboratorio è domenica 17 giugno. se entro quella data non avremo abbastanza prenotazioni il laboratorio verrá rimandato.

report laboratorio Simulacri di piacere

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Faccio sempre fatica a raccontare quello che succede durante i miei laboratori: questa volta ho il piacere di condividere le riflessioni di una partecipante che lo fa al posto mio 

(i grassetti sono miei mentre le foto sono di Denise, che prima o poi pubblicherá tutta la meravigliosa gallery)

 

corde che legano, nodi che liberano

corde che legano, nodi che liberano

Siamo partite dalle paure e dalle aspettative: quando è oggetto di attenzione e di pratica politica uno spazio come il corpo è sempre utile darsi dei paletti mobili da riposizionare. Perchè l’affermazione che il nostro corpo è un campo di battaglia non è solo retorica, ma descrive come su di esso si combatta una battaglia alle volte sottile, alle volte mortalmente violenta ma che non lo lascia mai in quiete. Ritmi scanditi, ripetizioni di gesti, incarnazione di modelli e ruoli lo plasmano e lo allineano costantemente. Abbiamo un corpo addestrato a godere e provare dolore, conoscendo secondo un rituale quantomai atavico quali sono le condizioni necessarie affinchè queste sensazioni si determinino.

el pueblo unido è mejo travestito

el pueblo unido è mejo travestito

Quale è il primo ricordo di piacere che ci viene alla mente?

Una semplice domanda apre un mondo di immagini di piacere non propriamente conforme alla rigidità degli schemi.
Nei ricordi compaiono alberi, cortecce, api, campi aperti, sensazioni di calore, di freddo, di bagnato. Piscine, vasche da bagno, mani infantili curiose di esplorare i propri corpi e quelli di altr*. E poi la bocca che assaggia e gusta e gode. L’attesa di un bacio e la ricerca di un posto nascosto in cui lasciarsi andare.
Una serie di stimoli variegati che poco hanno a che fare con una sessualità sempre identica a se stessa, normativa nella misura in cui condiziona la nostra stessa capacità di provare piacere. Un piacere che imbriglia nella forma della relazione eterosessuale penetrativa con l’onnipresente botto liquido semi(fi)nale. Ed un ancora più demotivante: ti è piaciuto tesoro?

apri la bocca e lasciami entrare

apri la bocca e lasciami entrare

lasciarsi esplorare ampliando i limiti del corpo

lasciarsi esplorare ampliando i limiti del corpo

Effettivamente, al di là degli orgasmi finti, il confine tra realtà e finzione nella immensa sfera della sessualità è profondamente sottile, quasi inesistente. Esiste, invece, un margine che sanziona la legittimità di una certa forma del desiderio sessuale e agisce direttamente sulla nostra capacità di attingere ad un immaginario altro, immaginario che demistifica la centralità degli organi genitali come unici vettori del piacere.

fammi male, per piacere

fammi male, per piacere

Accettereste mai di farvi schiaffeggiare pubblicamente sul culo, magari legate con una corda che vi fa da bustino? Oppure farvi imboccare bendate da sconosciut*? Lascereste mai che il vostro corpo venga assaporato da più lingue estranee?

Per intenderci: immaginiamo la nostra sessualità come una serie di cerchi concentrici di Consensualità. Passo dopo passo, i cerchi più interni vengono meno e lo spazio di azione e “passione” diventa sempre più vasto.
Perchè deve esistere un unico luogo specifico, chiuso, intimo, buio, privato in cui si accetta di provare piacere? E ancora, perchè desiderio e piacere devono essere performati in funzione di una codificazione dei generi che stringe più della corda usata come bustino?
Il laboratorio di Slavina ti fa tornare bambina… a quando la ricerca perversa e polimorfa del piacere ancora non è del tutto condizionata dal moralismo e dal cristiano senso di colpa (a meno che la mamma o la maestra non ti abbiano scoperta con le mani nelle mutande, tue o di chissà chi altr*!)

sorrisi verticali

sorrisi verticali

Quando puoi ancora associare il piacere al divertimento, alle risate, alla dolcezza e al gioco. Non all’ansia da prestazione, alla posa plastica “nascondi il rotolo”, e ad altre sofferenze ritenute socialmente necessarie.

Vorrei riprendere una frase che la Slavi ha utilizzato per esorcizzare il timore dell’ignoto: “il passo del post-porno è quello della compagna più debole”. Al di fuori di questo ambiente protetto c’è l’invasione della normalità, che ti penetra senza permesso, senza chiederti se sei d’accordo e se è questo quello che vuoi. L’imperativo categorico del Tu Devi che si maschera come il canto della Sirena.

Slavina as pocciuta furia

Slavina a fine laboratorio as Pocciuta Furia stanca

Concludo con una sviolinata melensa di ringraziamenti… Mi avete rimessa al Mondo!

 

… giá, lo abbiamo fatto tutti e tutte insieme ;)  
con il supporto prezioso – unico, inimitabile, inestimabile, irravanabile – del Miss Vago Diverso Bistrot

#tisaluto

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Questo blog è una zona libera dal maschilismo. Giá da qualche anno i commenti sono moderati e non ho paura che mi si accusi di essere antidemocratica per questo.
Di spazi saturi di maschilismo ce ne sono giá abbastanza, nella Rete e fuori.

Quanto al #tisaluto l’ho detto un sacco di volte nella mia vita. Ho rinunciato a occasioni succulente e pseudocarriere perché da quando ho avuto l’etá della ragione su certi argomenti sono sempre stata abbastanza intransigente. A volte ho anche pensato che lo ero troppo e che magari un occhio potevo chiuderlo. Oggi invece sono felice e anche un po’ stupidamente fiera di essere inciampata nella barricata molto presto.

Non posso quindi che appoggiare l’iniziativa di sensibilizzazione che unisce oggi molte blogger italiane e mi fa piacere pensare che se (almeno nel simbolico) c’è da fare le barricate non saremo solo le solite punk irriducibili lesboputtane a farci venire i calli alle mani ma anche qualche bella signora coi tacchi, i capelli a posto e magari anche un lavoro vero.

#tisaluto ma anche #bentrovate :)

 

#tisaluto

#tisaluto

In Italia l’insulto sessista è pratica comune e diffusa. Dalle battute private agli sfottò pubblici, il sessismo si annida in modo più o meno esplicito in innumerevoli conversazioni.

Spesso abbiamo subito commenti misogini, dalle considerazioni sul nostro aspetto fisico allo scopo di intimidirci e di ricondurci alla condizione di oggetto, al violento rifiuto di ogni manifestazione di soggettività e di autonomia di giudizio.

In Italia l’insulto sessista è pratica comune perché è socialmente accettato e amplificato dai media, che all’umiliazione delle persone, soprattutto delle donne, ci hanno abituato da tempo.

Ma il sessismo è una forma di discriminazione e come tale va combattuto.

A gennaio di quest’anno il calciatore Kevin Prince Boateng, fischiato e insultato da cori razzisti, ha lasciato il campo. E i suoi compagni hanno fatto altrettanto.
Mario Balotelli minaccia di fare la stessa cosa.

L’abbandono in massa del campo è un gesto forte. Significa: a queste regole del gioco, noi non ci stiamo. Senza rispetto, noi non ci stiamo.
L’abbandono in massa consapevole può diventare una forma di attivismo che toglie potere ai violenti, isolandoli.

Pensate se di fronte a una battuta sessista tutte le donne e gli uomini di buona volontà si alzassero abbandonando programmi, trasmissioni tv o semplici conversazioni.

Pensate se donne e uomini di buona volontà non partecipassero a convegni, iniziative e trasmissioni che prevedono solo relatori uomini, o quasi (le occasioni sono quotidiane).

Pensate se in Rete abbandonassero il dialogo, usando due semplici parole: #tisaluto.

Sarebbe un modo pubblico per dire: noi non ci stiamo. O rispettate le donne o noi, a queste regole del gioco, non ci stiamo.

Se è dai piccoli gesti che si comincia a costruire una società civile, proviamo a farne uno molto semplice.
Andiamocene. E diciamo #tisaluto.

Questo post è pubblicato in contemporanea anche da Marina Terragni, Loredana Lipperini, Giovanna Cosenza e Giorgia Vezzoli (e credo da molte altre – ndS)
Se ti va, copincollalo anche tu!

Una storia troppo normale

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Esco leggermente brilla da un centro sociale. La serata era bella ma domani devo lavorare, così m’avvio sola verso casa.
Accendo svogliatamente il motorino. Appena superato il primo incrocio mi passa davanti agli occhi una scena che non vorrei vedere.

Un uomo e una donna attraversano la strada. Lui la tira a se’ con violenza, lei sembra troppo ubriaca per riuscire a sfuggire alla sua presa. Li guardo. La guardo.
Vorrei proprio far finta di niente, riuscire a pensare che non sono affari miei, che domani ho da fare, che in fondo ne ho viste 10-100-1000 di scene uguali… ma non ce la faccio.
Sospirando accosto e fermo il motorino.
Magari non è come penso, magari è solo un modo che hanno questi due di giocare, magari ci riesco ancora ad andare a dormire ad un’ora quasi normale… Chiedo alla tipa se va tutto bene, se per caso ha bisogno d’aiuto.
Lei piagnucolando mi risponde di sí, che vorrebbe che il tipo la lasciasse stare, visto che l’ha giá picchiata abbastanza.

Per rafforzare il concetto mi fa vedere i lividi che ha sul braccio e sul collo.
Lui la interrompe e si rivolge a me direttamente: Ma tu che vuoi? Ma vattene dal tuo ragazzo, no?
Gli dico che è meglio se si calma e che deve smettere di trattenere la ragazza.
Lei, che già si era avvicinata per farmi vedere i segni adesso si è proprio messa dietro di me. Mi usa per prendere distanza da lui.
Ecco fatto. È andata.
Adesso ci sono dentro fino al collo e mi è chiaro che difficilmente riuscirò ad andare a letto presto.

Il tipo comincia a sbraitare. È un coatto orrendo di suo ma nella sua aggressività c’è un’evidente impronta chimica. Maledetta cocaina.
Mi viene sotto gridando che sono una lesbica, che quella è la sua ragazza e quello che succede tra loro sono cazzi suoi, che non mi devo impicciare e che se ho pensato di portargliela via ho capito male.
Soprassiedo all’osservazione relativa alle mie preferenze sessuali – ormai ci ho fatto l’abitudine: saranno i capelli troppo corti, le spalle troppo larghe, i pantaloni a vita bassa o i miei modi non femminili ma quella di “lesbica” è un’etichetta che ultimamente mi ritrovo spesso appiccicata addosso. E chi me la fornisce non lo fa mai per farmi un complimento.

Intanto si sono fermate altre due ragazze a guardare a debita distanza e quando la situazione comincia a farsi pesante (il tipo non m’ha ancora messo le mani addosso ma ci si avvicina paurosamente mentre io rimango sorprendentemente calma) le vedo allontanarsi parlando al telefono. Ecco, adesso arrivano pure le guardie. Ha ragione mia madre quando s’incazza e mi dice che quando non vengono da soli i guai me li vado a cercare…

La coppia di scoppiati adesso litiga più seriamente, parlano di un motorino che lei sta pagando a rate ma che lui considera di sua proprietà. La minaccia finale del violento è “Adesso te lo vado a sfracellare contro un muro, stronza”. Prende e se ne va.
Nel frattempo – completamente fuori tempo, ovvio – giungono a sirene spiegate le cosiddette forze dell’ordine.
Ci chiedono i documenti e di raccontare cos’è successo.
La ragazza è sotto shock, non riesce a fornire una spiegazione lineare dell’accaduto e in realtà l’unica cosa che sembra interessare il funzionario che l’ascolta con aria spazientita è la storia del motorino con cui s’è dileguato il tipo.
Passano 10 minuti, un quarto d’ora al massimo e contro ogni logica e mia aspettativa il coatto ricompare all’orizzonte.

Ditemi che non è vero.
Ditemi che non può sentirsi così sicuro di se’ da riportare qui impunemente le sue pretese da maschio padrone. Invece questo è il minimo.
Sostiene di aver chiamato anche lui le guardie e che vuole denunciarmi per sequestro di persona. Andiamo bene. Io non so più se ridere o piangere quando effettivamente arrivano altre 2 volanti (oltre alle 3 già presenti). Penso che questa sera a Roma non deve star succedendo proprio un cazzo mentre guardo perplessa le 5 volanti così inopportunamente vicine all’ingresso del centro sociale di cui sopra.
Mi sento quasi in colpa ed è la prima volta in questa notte sfigata che m’attraversa la testa, con estrema chiarezza, un pensiero “normale”: Ma perché non mi sono fatta i cazzi miei?
Telefono a un compagno del centro sociale per avvisare dello sgradevole movimento appena fuori dai cancelli. Gli racconto la storia per sommi capi e lui mi dice “Ma perché non hai chiamato prima?” Rispondo con un “Eh…” che vorrebbe essere molto piú articolato.

Intanto le guardie ascoltano anche la versione del tipo. Si sono allontanati per facilitare l’operazione peró lui, come ogni coatto che si rispetti, non smette di sbracciarsi verso di noi e vuole riavvicinarsi alla tipa e a un certo punto mi urla E te m’hai rotto er cazzo lesbica demmerda, perché non vai a leccá le fiche del centro sociale?
Sospiro e rimango interdetta.
Le guardie sghignazzano – alcune con pudore, altre molto apertamente.
L’unico che non ride è quello che ci piantona, ma comunque nessuno censura la sua frase.
Il poliziotto “buono” (quello che non mi ha deriso) ci spiega che stanno facendo di tutto per ritrovare il motorino. A loro importa solo questo cazzo di motorino.
Provo a spiegargli che la ragazza ha subito una violenza e che forse varrebbe la pena di interessarsi anche di questo.
La guardia mi risponde con aria di sufficienza “A signorí, l’amica sua scusi ma nun se capisce. Prima piagne, poi ride – e puzza come un’osteria”
Non riesco a trovare la forza di spiegargli che é tipica delle persone in stato di shock l’incapacità di gestire le emozioni e che quindi, forse, la sua insicurezza non dipende dalle bicchierate di vino che s’è presa. Penso che lo dovrebbe sapere. Penso che invece di 10 energumeni qua ci dovrebbe essere almeno una persona formata per riconoscere e mediare nei casi di violenza di genere.

Non riesco a crucciarmene troppo, visto che la mia attenzione viene presto attratta dal coatto, che ha fatto la sconsiderata mossa di superare le guardie che lo trattenevano per tentare di avvicinarsi a noi correndo.
Finisce come finisce sempre in questi casi.
In due lo acchiappano e lo tranquillizzano a suon di mazzate. Ne prende un bel po’, di quelle date bene, che senti le ossa che scrocchiano pure da lontano.
Io chiudo gli occhi e solo il rumore mi fa rabbrividire.
Non era così che doveva finire.
Infatti non é finita ancora.
Il poliziotto dichiara alla ragazza che non deve pensarci adesso, che ha ancora tempo per presentare la denuncia.
Lei tra i singhiozzi risponde “Va bene”.
Poi mi prende da una parte e mi dice “Signorí, ma lei lo sa tanto che questi due domani vanno al mare insieme, no? Non sa quante ne vediamo di storie così…”

Il coatto ha capito che con quegli energumeni non si deve allargare e ricomincia ad insultare e minacciare me.
“Sta lesbica demmerda…”
Il poliziotto ci dice che possiamo andare, che se sapranno qualcosa del motorino chiameranno loro.

Io ho finito le sigarette e adesso devo anche riaccompagnare la tipa a casa.
La lascio sul portone perché non ce la faccio piú e domani devo lavorare. Lei piange e mi dice che domani il tipo sicuramente tornerá a cercarla. Le dico che deve andare a un centro anti-violenza, che non ce ne stanno tanti ma che se cerca su Internet di sicuro ne troverá uno. Che mi dispiace un sacco ma anche la mia vita è complicata e che deve cercare di farsi forza e di farsi aiutare da qualcuno che le vuole bene.

Me ne vado rabbiosa e impotente e quando arrivo a casa mi sparo un personale con i resti del tabacco che trovo per casa.
Non riesco a smettere di pensare a quella ragazza ma voglio dimenticare il suo nome. Non la voglio riconoscere dopodomani leggendo la cronaca di Roma.

dalla performance "La nobile arte" di Beotti-Pajewski

dalla performance “La nobile arte” di Beotti-Pajewski

ho scritto questo post quasi un anno fa. è – come molte delle cose che scrivo – una storia vera piena di bugie.
volevo averlo pronto per il 25 novembre, ma piú leggevo e piú correggevo e riscrivevo e meno mi sembrava pronto. l’ho pensato per mesi ed ha continuato a buttare fuori sangue e pus come se fosse una ferita.
è un testo che pone molte questioni. lo sento irrisolto, ma ho deciso di pubblicarlo lo stesso.
perché è un grido di impotenza che vuole essere ascoltato.
perché io, da sola, non posso risolvere proprio niente.

perché ho voglia, insieme a chi sente lo stesso grado di coinvolgimento o di impotenza, di aprire uno spazio di discorso laboratoriale sulla violenza sessista.

[continua]

[... speriamo]

Come si sente una donna

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Questo articolo è una traduzione dalla versione spagnola del testo ‘Como se sinte uma mulher’ scritto dalla brasiliana Claudia Regina per la rivista virtuale Papo de Homem e pubblicato il 22 maggio scorso.
É un testo semplice e diretto e oltre a me è piaciuto a centinaia di migliaia di persone, per questo ho voluto tradurlo e ringrazio Claudia che mi ha concesso di pubblicarlo qui.

Signore – ma soprattutto signori – godetevelo.

 

“Do you know what it feels like for a girl?
Do you know what it feels like in this world?”
Madonna

 

É successo ieri. Esco dall’aeroporto. In una camminata di dieci metri vedo solo uomini. Taxisti fuori dalle macchine parlando. Funzionari in maglietta “Posso aiutarti?”. Un uomo con la cravatta, la sua valigetta e il cellulare in mano. Uomini diversi, sparsi in questi 10 metri di cammino. Andando per questi 10 metri mi sento come una gazzella passeggiando tra i leoni. Sono guardata da tutti. Mi misurano. Mi analizzano. Il mio corpo, i miei glutei, i miei seni, i miei capelli, le mie scarpe, la mia pancia. Tutti mi stanno guardando.

 

É successo quando avevo 13 anni. Praticavo uno sport tutti i giorni. Uscivo dalla palestra e camminavo per circa due isolati fino alla fermata dell’autobus alle sei di sera. Camminavo sul marciapiede quasi vuoto di una grande via. Di queste camminate mi ricordo due momenti memorabili di questa violenza urbana. Macchine che rallentavano quando si avvicinavano, e dentro si sentiva una voce maschile “Sei bella!”. Uomini soli che attraversavano il marciapiede, si guardavano indietro e dicevano “Che delizia”. Io avevo 13 anni. Portavo pantaloni lunghi, scarpe da tennis e maglietta. Adesso moltiplica questo per tutti i giorni della mia vita.
So che per gli uomini è difficile capire come questa possa essere violenza. Noi stesse, donne, ci abituiamo e lasciamo che sia cosí. Ci abituiamo per poter vivere la vita di tutti i giorni. Uno di questi giorni stavo seduta in spiaggia guardando il mare dal quale usciva una giovane. Passó vicino a un tipo che le disse qualcosa. Lei si allontanó e venne camminando verso di me. Le dissi “Buona sera”, lei disse che l’acqua era deliziosa e parlammo un poco. Le domandai se il tipo le avesse detto qualche stupidaggine. Le mi disse “Sí, peró siamo talmente abituate, vero? queste cose le ignoriamo automaticamente”. Il privilegio è invisibile. Per un uomo è possibile riconoscere il privilegio solo se c’è empatia.
Prova a immaginare un mondo dove, per 5 mila anni, tutti gli uomini fossero stati sottomessi, violentati, assassinati, limitati, controllati. Prova a immaginare un mondo dove per 5 mila anni solo le donne fossero scienziate, fisiche, capi di polizia, matematiche, astronaute, mediche, avvocate, attrici, generali. Prova a immaginare un mondo dove per 5 mila anni nessun rappresentante del tuo genere si sia distinto in teatro, nell’arte, nel cinema, in televisione. A scuola apprenderesti una storia fatta dalle donne, una scienza fatta dalle donne, un mondo fatto dalle donne.
Nel suo testo “Una stanza tutta per se” Virginia Woolf descrive il perché sarebbe stato impossibile per una ipotetica sorella di Shakespeare scrivere come lui. Woolf dice:
“Quando leggiamo di una strega bruciata, di una donna posseduta dal demonio, una saggia donna vendendo erbe […] credo che stiamo vedendo una scrittrice persa, una poetessa annullata”
Dall’inizio del patriarcato, da 5 mila anni, le donne non ebbero sufficiente libertá per essere scienziate o artiste. Woolf spiega:
“La libertá intellettuale dipende da cose materiali. […] E le donne sono sempre state povere, non solo per duecento anni ma dall’inizio dei tempi”

 

NDT Per un’analisi piú completa Claudia raccomanda un link in portoghese, io vi consiglio direttamente di leggerlo tutto, visto che si trova in qualsiasi biblioteca
… poi magari qualcuno o qualcuna riesce a mettere trovare online il pdf e mette il link nei commenti ;)

 

Sebbene il mondo stia cambiando, ancora esistono meno opportunitá e riconoscimenti perché le donne e le minoranze esercitino qualsiasi occupazione intellettuale. I lettori di una pagina Facebook sulla scienza ancora suppongono che il suo autore sia un uomo e commentatori televisivi non considerano le manifestazioni culturali che vengono dalle favelas come vera cultura. É vero: oggi la vita è migliore, soprattutto per le donne occidentali come me. Peró, sebbene sia una donna libera e di successo, che vive in una metropoli culturale, ancora sento sulla pelle le conseguenze di questi 5 mila anni di oppressione. E se tu volessi vedere questa oppressione non avresti bisogno di andare ai libri di storia. Devi solo accendere la televisione.

 

Rio de Janeiro, 2013. Una coppia viene sequestrata in un furgone. Le sequestratrici si collocarono uno strap on sporco che puzzava di merda e di muffa, e violentarono il ragazzo. Tutte loro, una per una, mettevano quel dildo enorme nel culo del giovane, senza preservativo ne’ lubrificante. La fidanzata, poverina, cercó di fare qualcosa peró la legarono e la presero a pugni e calci. Al leggere la notizia, ti immedesimi nella vittima (che soffrí una delle peggiori violenze fisiche e psicologiche esistenti) o in chi guarda? Naturalmente i generi sono scambiati, la violenza reale successe alla donna.
Di quante violenze sono oggetto solo perché sono una donna?
Nell’infanzia non mi lasciarono essere scout perché non era cosa da bambine. Mi violentarono a otto anni (io e per lo meno due terzi delle donne che conosco e che conosci tu hanno subito una violenza di questo tipo e probabilmente non l’hanno raccontato a nessuno). Ho sofferto durante tutta l’adolescenza perché non mi comportavo in maniera “femminile”. Perché non avevo le tette. Perché non avevo capelli lunghi e lisci. Da sempre la mia sessualitá fu repressa dalla famiglia, dalla societá e dai media. Qualsiasi cosa facessi male mi costava l’accusa di sfaticata.
In uno dei miei primi impieghi ascoltai che le donne non lavorano tanto bene perché sono molto emotive e soffrono di sindrome premestruale. In un altro lavoro il mio capo mi disse che avevo dei brutti capelli e mi pagó un parrucchiere perché me li allisciassi per essere piú presentabile per i clienti. Ho deciso di non essere schiava della depilazione e ricevo sguardi schifati quando mi metto i pantaloncini o le magliette senza maniche. Ho usato molto trucco solo perché la televisione e la pubblicitá fanno vedere donne truccate, e per questo è molto facile sentirsi brutte con il viso pulito.
Tu, uomo, sai cos’è il trucco? C’è un prodotto per fare la pelle omogenea, uno per nascondere le occhiaie, un altro per nascondere le macchie, uno per colorare le guance, uno per esaltare le sopracciglia, un altro per le ciglia, un altro per colorare le palpebre, un altro per colorare le labbra. Quante volte ti sei messo cosí tanta roba in faccia solo perché il tuo capo o al primo appuntamento ti vedranno brutto con la faccia pulita?
Quando sono in metropolitana mi posiziono in un luogo sicuro perché nessuno mi si strusci. Tu lo fai?
Quando vado a riunioni familiari mi chiedono perché sono cosí magra, che ho fatto con i capelli e se ho un fidanzato. A mio cugino chiedono cosa sta studiando e che lavoro fa.
In televisione il 90% delle pubblicitá mi denigrano. Quasi nessun film mi rappresenta o passa il Test di Bechdel. Tutte le donne sono mostrate con vestiti sexy, perfino le eroine che si suppone dovrebbero usare vestiti comodi per le battaglie. Le riviste mi insegnano che il mio obiettivo a letto é piacere a un uomo. Mentre tu, uomo, comparavi il tuo pisello con quello dei tuoi amici, a me, donna, insegnavano che masturbarsi è una cosa molto brutta e che se usavo minigonne non avrei meritato rispetto.
Quanto tempo ho tardato a liberarmi della repressione sessuale e a diventare una donna a cui piace scopare? Quanto tempo ho tardato per liberarmi a letto e provare piacere, mentre alcune delle mie compagne continuano a preoccuparsi se il loro partner vede la cellulite o il rotolo di ciccia e per questo non arrivano all’orgasmo? Quanto tempo ho tardato ad avere il coraggio di guardare un cazzo senza scopare a luce spenta? Quante volte ho ascoltato, mentre guidavo, un “ecco vedi, naturalmente era una DONNA”? Quante volte hai tagliato la strada a qualcuno e hai ascoltato un “ecco vedi, proprio un UOMO”?
Tutto questo per, a fine giornata, andare a cena in un ristorante e non ricevere il conto quando lo chiedo, perché da 5 mila anni sono considerata incapace. E tutto questo, CAZZO, per sentirmi dire che sto esagerando, che il maschilismo non esiste piú.
Questo è un riassunto di quello che soffro o corro il rischio di soffrire tutti i giorni. Io, donna bianca, eterosessuale, di classe media. Le donne nere soffrono piú di me. Quelle povere soffrono piú di me. Le orientali soffrono piú di me. Peró tutte soffriamo dello stesso male: nessun paese del mondo tratta le donne tanto bene come tratta gli uomini. Nessuno. Ne’ Svezia, ne’ Olanda, nemmeno l’Islanda.
In tutto il mondo civilizzato soffriamo violenze e abbiamo meno accesso all’educazione, al lavoro o alla politica.
 
In tutto il mondo siamo ancora le sorelle di Shakespeare.

 

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E tu, lettore uomo, quando ti abbordano in maniera ostile per la strada, pensi “per favore, che non mi tolga il cellulare” o “per favore, che non mi stupri”?
Tutte le foto sono autoritratti di Claudia Regina, fotografa, blogger e viaggiatrice

Ana Suromai – una proposta indecente

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AnaSuromai (Maria Llopis, 2004)

Alzarsi le gonne per mostrare la vulva era qualcosa di coraggioso e forte. C’è una stampa antica nella quale una donna mostra la fica a un drago e questo retrocede davanti alla forza della visione. La visione della vulva si considerava un atto pieno di potere. Un’antica leggenda racconta che le donne mostravano la fica al mare quando i loro mariti si imbarcavano per andare a pescare, a modo di minaccia. E cosí il mare si calmava e i mariti tornavano. “La mar es posa bona cuan veu el cony de una dona” (il mare si calma quando vede la fica di una donna) recita un antico detto catalano.
(da El postporno era esto di Maria Llopis)

L’uso politico del corpo di donna [o meglio, del corpo codificato culturalmente come femminile] come dispositivo di guerriglia semiotica ha radici molto antiche. Il rituale di esposizione delle pudenda come arma di resistenza femminile ha un’origine mitologica e si è riprodotto come elemento di conflitto in un numero significativo di lotte contro il potere patriarcale sessuofobico non solo in Occidente

Il gesto di alzarsi le gonne e insegnare la vulva (chiamato appunto anasuromai o anasyrma) ha origine nei culti arcaici della Dea e ricorre, con le opportune modificazioni contestuali, nei miti e nelle leggende di tutto il mondo.

 

Charles Eisen per The Devil of Pope-Fig Island di Jean de la Fontaine (1896)

Mi piace l’idea della rappresentazione della vagina come territorio magico di una potenza non solo sessuale, soprattutto quando culturalmente siamo piuttosto portate a pensare ai nostri genitali come punti deboli del corpo.

INTERMEZZO: se di combattenti nude conoscete solo le Femen è un problema vostro.

 

Il primo laboratorio di Ana Suromai lo facemmo al week end di narrazioni erotiche radicali di Ada Lab: passammo per una sorta di stanza della trasformazione e poi scattammo un set di foto molto fiche.

Ci divertimmo moltissimo e producemmo immagini potenti, superando insieme la soglia della vergogna – e forse anche del ridicolo.

radical pussy

dal primo laboratorio di Ana Suromai (immagine di Silvia Potenza)

È per questo che ho deciso di rilanciare il laboratorio al prossimo evento Plaza del Sexo, organizzato a Torino da Altereva.

Il laboratorio si terrá venerdí 28 dalle 17 alle 19 nello spazio Cap10100 in Corso Moncalieri 18. Non so come sará lo spazio ne’ se la dinamica sará la stessa, peró penso che possano valere i consigli che avevo dato alle partecipanti del week end di Ada Lab

>>>>>>> se vorrete fare la foto per tenerla solo per voi e le persone di cui vi fidate, (con estremo dispiacere) vi verrá concesso.
se invece vorrete partecipare a questa sfida collettiva al senso del pudore, la giocheremo insieme.

indi:
- se volete depilarvi o sperimentare acconciature fantasiose, avete tempo per farlo
- se non volete farlo va bene lo stesso
- portatevi una gonna e in generale dei vestiti che vorrete usare nel vostro ritratto
– se siete brave con trucco e parrucco e vi va di aiutare le altre a sentirsi piú fighe ;) portatevi i vostri materiali
- se voltete portarvi un passamontagna, dei baffi finti o altri travisamenti è tutto benvenuto

Ana Suromai King Kong di Silvia Potenza

Ana Suromai King Kong di Silvia Potenza


in tempo di Pride (estratto da Etica marica di Paco Vidarte)

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il testo che segue è un estratto da Etica marica (Etica frocia), pamphlet che Paco Vidarte, professore di filosofia e attivista queer, scrisse in occasione dell’EuroPride di Madrid del 2007.
i riferimenti, originariamente riferiti al contesto spagnolo (trionfante dopo l’approvazione del matrimonio omosessuale da parte del governo Zapatero, nel 2005) sono applicabili anche al contesto italiano (nel quale peró le persone omosessuali e in generale coloro che vivono nella dissidenza sessuale hanno anche poco da gioire).

per questa ragione ho deciso di leggere questo testo come introduzione al mio intervento all’interno del Pride nazionale di Palermo, al quale ero stata invitata come autrice del libro Racconti erotici per ragazze sole o male accompagnate.

immagine di Brian Cartone dalla sfilata Smoda (Palermo Pride 2013)

immagine di Brian Cartone dalla sfilata Smoda (Palermo Pride 2013)

Quando qualcuno al potere mi parla di ció che è possibile per me, io mi metto subito in guardia. I politici ci parlano solo di quello che è possibile per le le froce, di quello che è possibile per noi, di quando è possibile, di per quante è possibile, del se ci interessa che sia possibile, di quel che è possibile ma ci pregiudicherebbe: questo è il discorso eterosessista oppressore. A questo discorso non si puó opporre una strategia che lo continui, prolunghi e gli lecchi il culo come quella attuata dai collettivi: dimmi che è possibile e te lo chiederó. Dimmi che è possibile, ossia che ti conviene, e te lo chiederó. Dimmi che è possibile, ossia, come mantenere una struttura di controllo sociale e lo trasformeró in una rivendicazione del movimento gay. L’unica politica di opposizione reale e veramente distruttiva a livello sistemico, posto che i collettivi giá fanno parte del sistema, i rappresentanti delle froce appartengono a partiti politici e la loro azione non puó essere che strutturalmente diretta alla riproduzione delle strutture di potere eterosessiste a cui appartengono, è una politica non possibilista del questo è possibile, adesso è possibile, domani sará possibile, non sará mai possibile (il possibile ha bisogno di essere enunciato, decretato da una istanza che è quella che crea, determina, giudica, istituisce l’ordine del possibile, che non è mai fattuale, naturale, ontologico; il possibile è una categoria politica di oppressione, essendo sempre il potere a determinare l’ambito del possibile: entrare nel gioco politico della negoziazione del possibile é un suicidio del movimento LGTBQ se si prospetta come unica strategia di lotta).
[…]
Un’altra politica è possibile. Altri collettivi. Altri dirigenti. Altre manifestazioni. Un altro Pride. Anche se adesso sembra impensabile. Niente è per sempre. Io credo come frocia nella irruzione del nuovo e dell’inatteso, in che succeda qualcosa che nessuno aveva pensato prima, in che nascano nuove proposte etiche, politiche, teoriche, filosofiche, militanti, quello che sia purché rompano il paradigma monolitico della negoziazione e il possibilismo come unica forma di relazionarsi con il potere consegnandosi a esso, visto che é il potere che detta quello che per la comunitá LGTBQ è possibile e quando, e come, parlando chiaro, gli puó risultare innocuo, inoffensivo, utile, opportuno e conveniente gestire un orizzonte chiuso, limitato e regolato dalla legge per la comunitá gay.
[…]
Poco possiamo aspettarci da chi giá si è installato in politica per conto nostro e ha fatto carriera in nostro nome, espropriandoci della nostra voce, permettendosi il lusso di screditare tutte le lotte, le strategie e le rivendicazioni che non fossero le sue, ufficializzate, negoziate, pattuite, imposte dall’alto. [Io propongo una] Politica mutante, che crei organi per i quali non ci sono ancora funzioni, che debba inventarsi ad ogni passo, che magari a volte non sa che fare peró non smette di agire, di portare avanti azioni senza senso, con la speranza che un giorno avranno senso, che un giorno esisterá un orizzonte possibile nel quale abbiano senso, in cui saranno condivise.
Una politica che fugga dalla rivendicazione dell’esistente, di quel che ci viene offerto, cosciente che solo da noi stesse sorgono i nostri diritti, che ci dobbiamo inventare giuridicamente e socialmente, approfittando di quello che siamo invece di ipotecarci cercando di essere come non siamo, come sono gli altri, vivendo come la maggioranza rinunciando a una differenza […] che è il nostro unico vantaggio, la nostra maniera piú propria di lottare per la libertá. Una politica che scommetta su discorsi nuovi, irriducibile al commercio negoziatore e al chiacchiericcio demagogico e di controllo sociale, tattiche di lotta e strategia dirompente che facciano scoppiare, schiantare, saltare in aria una situazione di status quo che ci vendono come definitiva e inamovibile, non migliorabile ne’ peggiorabile, con cui dobbiamo conformarci per forza perché non hanno altro da darci, non c’è piú niente da fare ne’ da inventare. Puro conservatorismo politico che impregna anche i nostri collettivi, anche le nostre menti di frocie ogni volta piú smobilitate, piú conformiste, piú “orgogliose” e meno riventicative.
[…]
Io sono ottimista e confido enormemente nel potere del piccolo, delle micropolitiche, degli effetti imprevedibili di ogni cosa che faccio, di ogni riga che scrivo. So che un novanta per cento di tutti i miei sforzi finisce al secchio, che si ritorcono contro di me, che non offendono nessuno, che non fanno male a nessuno, che non danno niente a nessuno, che non generano ne’ un briciolo delle illusioni che vi erano riposte, che non rispondono mai alle mie aspettative. Peró a volte, quando ho fortuna, un paragrafetto fatto per caso, senza pensarci, un paragrafo di transizione per nulla importante disegna un sorriso in chi lo legge, risveglia una idea stupenda in qualcuno, prende vita propria e, io suppongo, termina per avere qualche effetto che non cambierá il mondo ma almeno avrá ottenuto un sorriso, avrá suscitato indignazione, avrá generato complicitá o guadagnato solidarietá.
La mia rivoluzione è molto piccola. […]
Io vedo un graffito sul muro, un manifesto brutto, un adesivo incendiario, un flyer con piú motivazione che grafica o testa, quattro che decidono di fare qualcosa insieme, un’azione organizzata in una sera, una occupazione effimera, e mi viene la pelle d’oca, credo nel futuro, mi si alza il morale, improvvisamente ho fiducia nella gente e mi viene voglia di mettermi anch’io a fare cose. Bisogna stare attenti all’inerzia delle masse. E le froce di questo paese di sono trasformate in massa inerte smobilitata. Io sto attento a quello che fanno due frocie tra venti, tre trans tra quaranta, cento persone in mezzo a un milione, perché mi sembra che lí ci sia la vera forza del cambio ideologico, una attitudine militante impegnata, la garanzia che non tutto é stato consumato.

(Etica Marica, ed. Egales, pag.101 e seguenti)

[i grassetti sono miei]

l’omissione del corpo intersex – di Lorenzo Santoro

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NEONATI DAL SESSO INCERTO E DISTURBI DELLA DIFFERENZIAZIONE SESSUALE: RENDERE RETORICI IL PENE E LA VAGINA ATTRAVERSO L’OMISSIONE DEL CORPO INTERSEX.

Torso ermafrodita – Del Lagrace Volcano

Quello di cui sono sempre stato accusato è di voler tenere un piede in due scarpe, per il semplice motivo di aver scelto oltre il mio genere anche il mio sesso; sono cosciente di essere una persona scomoda, un soggetto che fa diventare folle uno psichiatra, fantasioso l’empirismo e irragionevole la ragione. Sono la dimostrazione vivente che si può togliere per edificare senza però rimuovere, processo questo che può avvenire solo nella piena coscienza della persona altrimenti si può parlare solo di distruzione, l’esperienza è quanto di più prezioso abbiamo e non deve essere un lusso permettersela. Sono stato riconosciuto alla nascita come maschio, sento mio questo sesso, è con questo segno che ho costruito il mio linguaggio psico-corporeo, sono uomo, sono frocio.

A 14 anni ho sviluppato il seno evento che non ha inficiato la mia identità, a 20 anni mi è stata diagnosticata la sindrome di Klinefelter 47 xxy. La letteratura medica e i metodi contenitivi della sanità pubblica che sono stati scritti, creati, applicati e testati su pazienti come me accusati di essere affetti da disturbi della differenziazione sessuale sono pratiche di annientamento della salute psichica dell’individuo, nonché di censura di quelle forme che né un neonato né un adulto può rimuovere nel profondo solo perché eliminate in superficie. Mi scuso con chi non è mai riuscito a tenere il suo fottuto piede in due scarpe, per aver fatto mia per un periodo della mia vita la parola intersex che mi ha permesso di uscire dalla catena di montaggio della creazione di corpi e menti standard, uso che è stato solo transitivo, ma che mi ha messo nella posizione di poter andare avanti per poi tornare indietro alla mia salda identità di maschio, uomo, frocio. Non sono l’unico, sono l’unico che lo dice, non è questo un atto di accusa, io stesso forse per aver frequentato troppo a lungo corridoi, panche, sale di attesa, studi e lettini di ospedali ho paura di ripercussioni che possano mettere in pericolo la mia salute, ma è proprio per questo che ho deciso di parlare, per scindere tra corpo e salute. L’iter medico che seguo, che tra l’altro previene e non cura, è ottimale per il mio benessere fisico; è l’invenzione che ci sia un nesso tra sesso e salute a mettere in pericolo la vita delle persone che si definiscono intersex o che non si definiscono in tale modo. Lungi dal mettermi nei panni di un chirurgo ho scelto di intervenire, ma non ai fini di censurare un corpo ma per portare alla luce quali sono le prassi del discorso e dell’azione che vengono compiute nei confronti di persone considerate alla nascita come incerte.

Quando ero bambino non mi piaceva molto anzi affatto la pasta con il sugo, che fosse con la carne, con le melanzane o finto (senza niente), comunque non mi andava giù, così mia nonna per farmi mangiare la pasta col pomodoro escogitò un metodo sublime per una piccola frocia come me: la pasta rosa. Questa pietanza che ai miei occhi appariva squisitamente eccentrica era semplicemente una pasta con meno passata e per questo aveva su per giù lo stesso colore delle big buble alla fragola. Nonna Tita aveva semplicemente cambiato le carte in tavola per farmela mandare giù senza che io me ne accorgessi e c’è riuscita, era il mio colore preferito!

Ma andiamo avanti nel tempo di 23 anni e spostiamo l’orologio indietro di 24 ore; ieri mentre mi stavo per tuffare nella mia insalata feta, cetrioli, peperoni e origano, poso lo sguardo su un articolo di la Repubblica online che titolava così: “Sesso incerto” dei bambini, al San Camillo boom di interventi: più 50 per cento in 5 anni. Sottotitolo: Un neonato su 5 mila è affetto da questo disturbo. L’operazione è risolutiva ma deve essere effettuata prima del compimento dei 6 anni.

Adesso rileggiamo titolo e sotto titolo con le pause proposte dal giornalista con i segni interpuntivi, sesso incerto /pausa/ dei bambini /pausa/ al San Camillo boom di interventi /pausa/ un neonato su 5 mila è affetto da questo disturbo /pausa/ l’operazione è risolutiva ma deve essere effettuata prima del compimento dei 6 anni /pausa/.
Forse sono matto ma la prima cosa che ho fatto è proprio questa, ho sostituito alle virgole e ai punti un battito di mani ed è così che mi è venuta in mente la cucina di nonna Tita, ed ho capito che qualcuno sta cambiando non solo le carte ma anche le regole del gioco. Quello che dovrebbe essere il soggetto (i bambini) suona nella frase come un aggettivo, la scena è completamente occupata dal sesso incerto, la lingua batte dove il dente duole diceva qualcuno, e già, perché un neonato assai poco sa di come noi grandi ci viviamo il sesso che ci portiamo nelle mutande, tanto che, continua il titolo, è l’azienda ospedaliera del San Camillo che propone l’intervento non di certo il nascituro, ma se la pillola da mandare giù fosse soltanto questa giù non ci andrebbe, perché è chiaro che quello che propone la sanità pubblica non è un semplice intervento, ma un vero e proprio atto di violenza ai danni di un individuo che per il suo status neonatale non è in grado di esprimere alcuna scelta per tutelare i suoi confini, che, ad un giorno o mese di vita non possiamo neanche definire con le categorie di identità di genere, sesso e orientamento sessuale per il semplice motivo che il soggetto in questione sta ancora costruendo la sua dialettica corporea, con la quale sceglierà in futuro di relazionarsi a tutto ciò che è al di fuori dei suoi limiti… così come Mary Poppins ci danno un po’ di zucchero.
Il sottotitolo incalza in modo direttamente esplicito e con le stesse doti di pittore di Hitler, lo scrittore ci dona una sua fantastica suggestione su cosa è il sesso incerto, ma per la paura di far apparire il suo testo troppo narrativo si limita a riportare quello che apparentemente è un accaduto, un fatto dimostrabile empiricamente: un neonato su 5 mila è affetto da questo disturbo, è così che la sanità giustifica il suo operato ed è così che una persona x su un pianeta x della nostra galassia può permettersi di dire che l’operazione è risolutiva e deve essere effettuata entro i sei anni, perché dopo una persona capisce che di certo di “sesso incerto” non ci muore, o forse sto parlando dall’oltre tomba, sento una voce, mi stanno chiamando, odo queste parole. Lorenzoooo se ci sei batti un corpooo.

Al risveglio dall’operazione di asportazione delle ghiandole mammarie che io ho scelto di fare a 20 anni, mi sentivo cavo come un vulcano spento, ho pianto per un mese, ho tentato di spaccare la porta del bagno a pugni, ho riempito di sputi lo specchio, ho preso a calci tutto quello che di inanimato mi è passato sotto il naso, ci sono voluti 2 anni di analisi per elaborare questo lutto, pensate a quale danno viene arrecato ad un neonato a cui viene tagliata la clitoride soltanto perché più lunga di un fantomatico mondo normale, che non è in grado di sfogarsi, di capire cosa gli è accaduto, di elaborarlo e peggio ancora di dirlo.

Ma veniamo al corpo dell’articolo, Aldo Morrone il direttore generale dell’azienda ospedaliera della struttura in questione afferma che questi piccoli sono affetti da disturbi della differenziazione sessuale, grandi paroloni che mettono in soggezione, essere affetti significa avere qualcosa di malato, il disturbo segna una disfunzione, la differenziazione sessuale crea l’esistenza di sessi differenti che nell’economia interna del testo vengono implicitamente identificati in maschio e femmina, in parole semplici e comprensibili il racconto ci sta dicendo che ci sono persone che hanno un sesso differente dal cazzo e dalla figa e questa differenza viene individuata come malattia, è opportuno aggiungere quello che è omesso: il disturbo in questione è identificato dalla medicina occidentale come sindrome, una sindrome può essere tenuta sotto controllo, ma non va via con un’operazione, mutare il corpo non muta la mappa cromosomica né il tasso ormonale nel sangue, c’è qualcosa di molto più profondo del voler solo curare, che spinge questi dottori e questa medicina nell’optare per un’operazione di questo genere. E la soluzione la troviamo nelle stesse righe, perché prima ci si è appurati di costruire la malattia attraverso metodi neanche troppo sofisticati di costruzione del periodo e poi nelle ultime tre righe troviamo citati gli “interventi per definire il sesso”. Ma come? È una malattia cromosomica e ormonale, che c’entra la definizione del corpo? Cosa disturba veramente – e chi -, il corpo o le problematicità legate al benessere? Come mai si ha così tanta difficoltà nell’accettare un dato di realtà e quali sono i meccanismi che spingono le persone a voler materializzare su un corpo altrui le proprie fantasie riguardanti il corpo e le sue funzioni? Cosa comunica un corpo intersex di così tanto orribile dal dover essere immediatamente censurato? Perché si crede che un neonato non sappia definire il proprio sesso? Il San Camillo ha una sede distaccata su Plutone dove non esistono le identità di genere e i sessi eletti all’esistenza? Non so rispondere a tutte queste domande, forse soltanto ad alcune. Sicuramente il San Camillo si trova a Monte Verde al di là del Tevere, quindi fuori le mura, forse c’è qualche nesso, ma mi sembra altamente improbabile, allora sarò più violento, temo che il corpo intersex (e attenzione, non è detto che una persona con un corpo intersex definisca il proprio sesso in questo modo) ci stia comunicando che i nostri parametri per leggere la realtà sono retorici non oggettivi; nominare e costruire in modo ossessivo peni e vagine e ripetendo all’infinito questa filastrocca non è comunque un metodo che riesce a nascondere il dato di fatto essenziale, ovvero che bisogna creare delle condizioni artificiose per intervenire su un corpo che altrimenti avrebbe uno statuto a se stante di esistenza. Se lasciassero queste forme libere di esistere, un pene e una vagina diverrebbero soggettivi e non oggettivi e così per un effetto domino la mappa cromosomica e gli ormoni non sarebbero più elementi essenziali e costitutivi del proprio corpo. Non è un caso che si adoperi la parola disturbo perché è vero questi bambini disturbano le bugie che ci raccontano i grandi.

Mi rendo conto che questo testo è limitato e parziale per l’assenza di molte voci e per l’eccessivo ascolto di quelle di dottori, chirurghi, psichiatri, filosofi e persone interessate all’argomento. Non metto in dubbio che tra queste ci possano essere parole e posizioni condivisibili, ma la comprensione e la condivisione non significano come un’esperienza, per questo soltanto noi possiamo denunciare il silenzio assordante e l’invisibilità alla quale veniamo condannati, le torture fisiche e psichiche a cui veniamo sottoposti in nome della felicità altrui, l’uso improprio della medicina e della psichiatria (semmai esista un uso proprio di quest’ultima), la costruzione di discorsi terroristici che fondano il loro potere sulla base dell’ignoranza e della paura e che investono brutalmente non solo i “pazienti” ma anche le loro famiglie, la sottrazione indebita dell’allegria, del sorriso, della spensieratezza, della gestione del proprio corpo e della propria mente, l’intento di eliminare la nostra capacità di fantasticarci, sognarci, esserci, amarci e armonizzarci, la creazione totalmente infondata di una presunta infermità fisica e mentale, l’induzione di angosce ed ansie, l’atteggiamento di pena con cui alcuni psichiatri ci trattano cercando di convincerci che abbiamo bisogno del loro aiuto. E più saranno le voci più saranno le lotte.

 

Lorenzo Santoro.

10, 100, 1000 Stonewall – perché ne abbiamo ancora bisogno

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Una tragedia in tre atti

Prologo
Il padre della mia amica V, dopo averla vista in un servizio televisivo sul Pride ballare seminuda a fianco della scritta Enjoy Stonewall, rivoltati ora e non nella tomba le invia un messaggio di testo che dice pressappoco: Figlia mia, tu non hai bisogno di Stonewall per essere felice.

Atto Primo
É la notte di sabato 22 giugno a Palermo. La sfilata è finita, il megaevento del Pride nazionale – che per due settimane ha animato i Cantieri Culturali della Zisa – si avvia alla chiusura.
Per le strade s’attardano gruppetti e coppie ancora festanti.

Intermezzo in forma di divagazione personale
A Palermo ci sono stata giusto la settimana prima. Della cittá ho amato il cibo, il mare, la generositá delle persone con cui ho avuto a che fare, le strade sgarrupate che mi sembrava sempre di stare tra Napoli e Beirut e quel senso di bellezza nonostante tutto.
Ma tra tutte queste cose notevoli e piacevoli ce n’era una che proprio non riuscivo a sopportare: la pratica costante (e normalizzata) del commento (piú o meno complimentoso) al mio passaggio.
Ora, alla bella etá di quasi 40 anni sono abbastanza consapevole del mio body language – e se scelgo di vestirmi in maniera provocante poi sono capace di assumerne le conseguenze… il problema è che a Palermo, pur andando in giro acchittata come una beghina venivo redarguita ad ogni angolo – con parole ed espressioni che tra l’altro non capivo.
E troppo pigra e pacifica per prendere di petto la situazione facevo sempre finta di non sentire (anche perché effettivamente non capivo cosa mi veniva detto, anche se gli sguardi me lo facevano immaginare). Il mio Io femminista era spesso, per questa ragione, molto a disagio (con un senso di rassegnata impotenza simile a quando in Palestina, d’agosto, andavo in giro con magliette a maniche lunghe… qua la storia va cosí).

Ma torniamo alla sera del Pride.
Immaginate una piazza qualunque della Vucciria, zona in cui si concentra la vita notturna palermitana.
Le mie amiche bevono e chiacchierano, contente e un po’ brille quando a un certo punto la loro attenzione è attratta dal vociare molesto di un gruppetto di energumeni. Dall’altro lato della piazza, due ragazzi seduti su un muretto si baciano. Lo fanno con delicatezza, senza nessuna esagerazione. Non ostentano, semplicemente esistono.
Ma per il gruppo di buzzurri che li prende a male parole quella visione è evidentemente insopportabile. I ragazzi non li notano – oppure come me fanno finta di niente, per quieto vivere, pensando che magari tra un po’ li lasceranno stare… finché una bottigliata non li raggiunge a poca distanza dai piedi.
A quel punto non possono piú far finta di non sentire; si alzano e se ne vanno abbastanza in fretta.
Le mie amiche rimangono gelate. Non sanno cosa fare o dire.

Fine primo atto.

Atto secondo
Sono le 3 di mattina del 27 giugno. Quartiere del Raval, Barcellona.
Alla Bata de Boatiné – uno dei locali queer storici della cittá catalana, angusto come un budello e frequentato abitualmente dalla creme dell’attivismo postporno – si festeggia: è il finesettimana del Orgullo (il Pride in Spagna si chiama Orgoglio), si ricorda la rivolta di Stonewall e per la cinquantina di persone lí riunite quell’incontro ha piú significato che la sfilata del giorno successivo.
In pochi minuti peró, alla festa si sostituisce l’angoscia.
Per entrare alla Bata c’è bisogno di suonare un campanello, ma i 20 mossos che entrano bardati come per un’operazione antiterrorismo preferiscono sfondare la porta. Sono incappucciati e armati (qualcuno pistola alla mano) e non si capisce bene cosa cercano, ma se l’obiettivo è spaventare ci riescono benissimo. Faccia al muro e silenzio, ordini gridati in faccia, spintoni.
4 furgoni della polizia (i mossos d’escuadra sono il corpo di polizia autonomico catalano) bloccano calle Robadors, entrando anche nel locale continguo alla Bata, il 23. Per un paio d’ore la strada è bloccata, alcune delle persone che si trovavano all’interno dei locali vengono identificate, perquisite e se osano chiedere perché si prendono anche qualche schiaffone (i mossos sono famosi per avere la mano pesante…)
Si saprá poi che sono 6 i locali *d’ambiente* (gay, lesbico, queer) che quella stessa notte sono stati assaltati e perquisiti in cerca di irregolaritá amministrative. Nessuno di loro – caso strano – si trova nella zona del cosiddetto Gayxample (congiunzione tra Gay e Eixample, nome di un quartiere abbastanza borghese della cittá), territorio piú turistico in cui regna la peseta rosa, ovvero il commercio frocio in tutte le sue declinazioni.
Le persone che hanno vissuto queste retate le descrivono con il terrore abituale di chi sa di vivere in uno spazio/tempo in cui è diventato aleatorio e revocabile lo stato di diritto.

Certo che oltre al danno, in questo caso c’è stata pure la beffa…

(anche al secondo atto siamo sopravvissute. per il momento)

Atto terzo
Lunedí 1 luglio prendo un aereo per Roma. Con le migliori intenzioni mi sono prestata a partecipare a un’intervista per un bel programma della televisione italiana (sono pronta ad essere masticata e digerita – sono pronta a sforzarmi di comunicare qualcosa di radicale e rivoluzionario e che di ció passi meno del 30% – sono pronta anche a sembrare una scema; per una volta ho deciso di compromettermi e che il gioco vale la candela), quindi in due giorni mi tocca fare un assurdo ping pong Barcellona-Roma.
Mi offrono tutti i comfort di serie: dall’aeroporto una macchina con autista mi accompagnerá fino al Teatro delle Vittorie come se fossi una Lorella Cuccarini.
L’autista deve avere piú di sessant’anni e mi dice che devo tenere i finestrini chiusi. Evabbé.
>>>>>>>>> Chi mi conosce sa che odio viaggiare in automobile – in realtá sono macchinafobica che non so come si dice – e uno dei modi per sostenere la paura che mi tortura è quello di viaggiare con la testa fuori dal finestrino come un cane, inebriata dall’aria
Il tipo ha voglia di chiacchierare. Mi dice che Prati non è al centro di Roma, e che si chiama cosí perché prima che ci mettesse mano Mussolini lí era solo campagna.
Io mangio la foglia.
Il vecchio fascio è il contrappasso che mi tocca per aver scelto di ammischiarmi con un media mainstream. Calcolo mentalmente il tempo che manca all’arrivo a destinazione e mi impongo di rimanere zitta e di non rispondere a nessuna provocazione.
Il tipo deve pensare che chi tace acconsente, quindi continua a sproloquiare finché non arriva a quello che dev’essere il suo pezzo forte, ovvero “A me sti froci me fanno proprio schifo”.
Lí smetto di far finta di non sentire e gli dico che non gli ho chiesto la sua illuminante opinione sull’argomento e che anzi non ho proprio piacere di starla a sentire. Il tipo continua a blaterare minchiate omofobiche anche pesanti come se ció fosse un suo pieno diritto.
Per fortuna siamo arrivati a Prati, nel frattempo.

Esco dalla macchina con una rabbia che m’acceca pensando a Clement Meric, l’attivista francese ucciso dai fascisti una settimana dopo aver partecipato alle manifestazioni a sostegno della legge sul matrimonio omosessuale in Francia.
Bestemmio al ricordare la nuova legge russa che proibisce la propaganda gay e mi viene da ridere amaro se penso che nel mondo dello spettacolo, in Italia, non esiste nessuna lesbica che viva tranquilla fuori dall’armadio le sue storie d’amore.

Epilogo
Il padre della mia amica ha torto di brutto.
Di Stonewall c’è ancora bisogno. E tanto.

Ma non per essere felici, proprio per sopravvivere.

ci vuole una pausa…

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per cause indipendenti dalla mia volontá (dopo 8 anni di lavoro indefesso il mio computer – il fedele Juanjo - m’ha detto addio, lasciandomi in una valle di sudore e lacrime) questo blog – dalla pubblicazione giá di per se irregolare – se ne va forzatamente va in vacanza… con la speranza di trovare nel frattempo un’altra macchina e poter ritornare a Settembre.

non-comune senso del pudore

mentre aspettate frementi il mio ritorno voi potete
- comprare il mio libro per allietare le vostre nottate estive,
- produrre pornografia con qualsiasi mezzo abbiate a disposizione (perchè in autunno comincerá l’avventura di Come4 e ci allieteremo vicendevolmente per delle buone cause),
- seguire gli accadimenti in Valsusa perché avere un orizzonte di dignitá e Resistenza vi fa sicuramente bene (io sono appena tornata dal campeggio di lotta e come al solito ci ho lasciato il cuore)

… ma soprattutto
- scopare come se non ci fosse un domani, con la mia disincantata benedizione e quella di un ventilatore, se siete ancora nel caldo cittadino.

intervista a Stracult

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quando mi invitano vado anche in televisione

e tu, ce li hai gli occhiali viola?

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(traduzione di un testo delle Feministas Acidas, sempre per la serie #femminismo4dummies)

LA SINDROME DEGLI OCCHIALI VIOLA

C’è un momento nella vita di ogni femminista nel quale si provano per la prima volta gli occhiali viola, occhiali che ci proporzionano un’esplosione di luce accecante ogni volta che osserviamo una scena maschilista. La sindrome comincia nei primi mesi ed evolve rapidamente ogni volta che leggiamo cose che ci aprono ancora di piú gli occhi.

I primi mesi sono sconvolgenti perché arrivi a scoprire violenza nella tua idilliaca relazione di coppia, vedi che tuo padre (portento d’uguaglianza per le vicine) fa solo una misera parte visto che il peso di tutta la casa ricade su tua madre (sí, questa signora che nella tua adolescenza era stata una strega si converte in una icona di donna in lotta), riconosci relazioni gerarchiche di genere nel tuo gruppo di amici e amiche, o osservi come lo spazio comunicativo della tua classe lo dominano gli uomini… e ti scopri dando piú credito alle opinioni maschili che a quelle delle tue compagne.
Sono dei mesi di risveglio, di scoperta che il mondo nel quale avevi ricevuto laboratori di uguaglianza a scuola in cui la prof ti aveva detto che essere bambina o bambino era uguale per il tuo futuro, é un mondo truffa.
Allo stesso tempo comprendi come i dolori del passato abbiano senso, come si completino le storie comprendendo questa violenza che é invisibile se non possiedi gli occhiali viola.
Vedi anche il tuo proprio maschilismo, la tua maniera maschilista di vedere il mondo: hai chiamato altre donne puttana e zoccola, fai la tonta nelle conversazioni coi ragazzi e ti senti meravigliosamente quando ti dicono che sei “uno di noi”. Sul serio?
Sí, gli strumenti che ha il patriarcato, e che usa durante tutto il tuo periodo di socializzazione, sono riusciti a collocarti nel livello inferiore e in una forma cosí camuffata che pensi di stare nell’uguaglianza. Giá.
Suppongo che é un periodo di scoperta, di risveglio, dal quale tiriamo fuori le forze per lottare il resto della nostra vita, perché davanti a una tale panzana non possiamo arrenderci. Per questo ridiamo tutte le volte che ci dicono che la nostra lotta è assurda e obsoleta. Il problema é che non tuttx quantx hanno la fortuna di avere degli occhiali viola.

che ogni pecora venga accoppiata…

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(traduzione dell’articolo di Coral Herrera Gomez uscito sul periodico spagnolo El Diario Cada oveja con su pareja)

L’amore romantico che abbiamo ereditato dalla borghesia del XIX secolo si basa nei modelli dell’individualismo piú atroce: che ci schiaccino con l’idea che dobbiamo unirci di due in due non è casuale. Davanti al declivio delle utopie religiose o le utopie politiche, sorgono nuove utopie romantiche personalizzate, fatte su misura. Siccome non crediamo piú di poterci salvare tutti insieme, ci sforziamo per trovare qualcuno che ci ami, e allo stesso tempo, qualcuno con cui riprodurci, dividere i conti e risolvere problemi.

Sotto la filosofia del “si salvi chi puó”, il romanticismo patriarcale si perpetua nelle favole che ci raccontano, e si installa lí dove non arriva il raziocinio, nel piú profondo delle nostre emozioni. Attraverso i film e le canzoni assumiamo tutta l’ideologia egemone in forma di miti, stereotipi e ruoli patriarcali. E con questi valori costruiamo la nostra mascolinitá e la nostra femminilitá, e imitiamo i modelli di relazione che ci offrono idealizzati.

Il risultato di tanta magia romantica é che la gente finisce per credere che l’amore é la salvezza. Peró solo per me e per te, gli altri si facessero i cazzi loro.

L’amore romantico postmoderno ci offre una soluzione individualizzata per sopportare la realtá. Mentre si costruiscono nidi d’amore e si vuotano le piazze, noi cerchiamo l’altra metá della mela e ci intratteniamo consumando finali felici. Il romanticismo del “si salvi chi puó” serve perché adottiamo uno stile di vita basato nella coppia e nella famiglia nucleare, e perché tutto segua com’é. Serve perché – soprattutto noi donne – impieghiamo quantitá ingenti di risorse economiche, di tempo ed energia, nell’incontrare la nostra mezza mela. Cosí non ci dedichiamo ad altre cose piú creative o piú utili.

Ogni pecora (ruminando la sua pena) accoppiata. Le industrie culturali e le immobiliarie ci vendono paradisi romantici perché ci rinchiudiamo in focolari felici. Credo che in gran parte per questo la maggioranza rimane addormentata, protestando a casa sua davanti alla televisione, sperando che passi la tempesta, sopportando la perdita di diritti e libertá o assumendola come frutto della malasorte.

I media tradizionali non promuovono mai l’amore collettivo – se non è per venderci una olimpiade o un’assicurazione sulla vita. Se tutti ci amassimo molto il sistema traballerebbe, perché potremmo arrivare a organizzarci per difendere i nostri diritti e autogestire le nostre risorse, e questo è pericoloso. Questa è la ragione per cui si preferisce che ci accoppiamo due a due, non venti con venti: è piú facile generare frustrazione e rassegnazione in una sola coppia che in gruppi di gente.

Il problema dell’amore romantico è che lo trattiamo come se fosse una questione personale, sebbene renda infelici milioni di persone nel mondo. Se sei stanca di stare sola, se il tuo partner chiede il divorzio, se ti innamori pazzamente e non sei corrisposto, se sopporti disprezzo e umiliazioni, se il tuo partner ha altre partner, è un tuo problema.

mezzamela

E tuttavia succede a molti milioni di persone: la sofferenza per amore è universale, pertanto non è un problema individuale ma collettivo. Alcuni perché non ce l’hanno e altri perché hanno creduto al romanticismo patriarcale e hanno costruito inferni coniugali in base alla logica del padrone/schiavo che fa di alcuni vincitori e altri vinti. Questa logica di dominazione e sottomissione genera terribili lotte di potere nel seno dei focolari, e divide uomini e donne in due gruppi opposti che si fronteggiano fino all’eternitá. Sono guerre di genere quotidiane che ci consumano e deteriorano la nostra qualitá di vita: la nostra e quella di molta gente che abbiamo intorno.

Il personale è politico, e il nostro romanticismo è patriarcale, sebbene non vogliamo parlarne perché le emozioni non sono un argomento “serio” da trattare nei congressi e nelle assemblee. Tuttavia le nostre relazioni ci fanno soffrire e sono tremendamente conflittuali: continuiamo a rimanere ancorati a vecchi modelli sentimentali dei quali è molto difficile liberarci, perché abbiamo il patriarcato che ci scorre nelle vene.

Elaboriamo molti discorsi intorno alla libertá, la generositá, l’uguaglianza, i diritti, l’autonomia… peró a letto e in casa non risulta cosí facile dividere in maniera equa i compiti domestici, gestire le gelosie, comunicare con sinceritá, gestire le paure, rompere una relazione con affetto. Quel che dovremmo fare è arrischiarci a rompere questi vecchi modelli per poterci amare meglio. Dobbiamo parlare di come possiamo imparare ad amarci bene, a creare belle relazioni, a estendere l’affetto alla gente e non centrarlo tutto in una sola persona.

Per trasformare o migliorare il mondo che abitiamo c’è bisogno di trattare politicamente il tema dell’amore e creare reti di affetto piú ampie del duo. Dobbiamo decostruire e ripensare l’amore per migliorare le nostre relazioni lavorative, vicinali, sentimentali, per poter creare relazioni piú egualitarie e diverse, per migliorare la convivenza tra i popoli. Solo attraverso l’amore collettivo possiamo articolare politicamente il cambiamento. Fidandoci delle persone, interagendo nelle strade, tessendo reti di solidarietá e cooperazione. Lavorando uniti per costruire una societá piú equa, orizzontale, e piú amorosa.

Si tratta, allora, di dare piú spazio all’amore nelle nostre vite, e di apprendere ad amarci bene, e amarci molto. Perché ne abbiamo bisogno.

 

…………… dedico questo post a Ro e Angeline – e a tutte le mie amiche e i miei amici che spesso e volentieri fanno le veci dell’amore


el #19O y la frustración del periodista del régimen

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(nota sobre la mani del #19O aparecida originalmente en Al di lá del buco y traducida por Victor y Paula)

mapa #19O

Hay una manifestación. No es noticia.

Hay una multitud inmensa de gente  que se ríe, pasea, grita lemas. No es noticia.

Hay un pancarta magnífica, la síntesis es poética y cuenta la fuerza y la historia y la potencia de quien no se somete y lucha. No es noticia.

Hay un grupo de chicos y chicas que han trasnochado para componer carteles donde está escrita la belleza, tenacidad, sueños, reivindicaciones. No es noticia.

Hay una mujer que ha llegado con el carrito y el nicho y dice que está a punto de ser desahuciada y no tiene salario y abraza y besa los amigos que miran al niño y le hacen muecas. No es noticia. Pase adelante.

Hay una chica joven, mona, estéticamente vendible en los media. Puede salir en portada. Venga, ya.  Está buena de verdad. Al final no nos importa de la lucha. El punto es que haya buenorras. Ésta es la foto que hay que hacer.

Hay un chico con una mochila negra. Hace falta seguirlo. Tiene una mirada rara. Seguramente os llevará al jaleo, y allá está la noticia. Al final el chico se sienta, abre la mochila y saca unos bocadillos para los amigos. ¡Joder! Ésta tampoco es una noticia.

Después de unas horas, reporteros, periodistas están tan frustrados que siguen estelas de humo imaginarias, oyen un petardo desde lejos y comunican en redacción que hay un atentado, la tía con la bomba de humo se describe como el jefe de un ataque a los “cívicos” y después llegan al rincón entre calle tal y calle qual y allá hay una pelea de un tal que siempre está aparcado en el rincón, un poco borracho que blasfema y insulta a otro que tampoco está tan bien.

Ya está: fotografía, envío de agencia y titular de terror mediático. Que tengáis miedo. La plaza es terror. No bajáis a las plazas. No lucháis por vuestros derechos. ¿Veis? Estáis en peligro. Allá hay mala gente. ¿Allá donde? ¿Pero allá…que no lo veis? ¿Dices que las únicas personas enmascaradas son militares? Que va…total: Si han de definiros las zonas rojas donde no se puede ir, hay una razón.

Ya está. Entrada hecha. Pon la foto de los borrachos. Pon dos polis que pasaban por allá, y saca una foto de archivo de los Black Block, pones que uno de los dos tenía un rollo de periódico en la mano, y dale con las análisis de la fenomenología del rollo asesino, estas armas de impacto utilizadas por los manifestantes, imagina un secuestro de rollo asesino en la cercana tipografía (el zulo de los violentos).

Y mientras tanto la mani sigue. La gente aumenta en número. Los niños ríen. Los adultos cantan. Los militares no tienen nada que hacer. Pero el periodista ha tenido su historia.

Porque el punto es que si no tienes una noticia, pues, invéntala. Desanima a las personas y aléjalas de las luchas. Tienen que saber que desde la plaza no se vuelve. Deben saberlo. Deben.

Y al final, hacer un regalo a este pobre periodista. ¿No veis que pena que da? ¿Nadie que lleve in un pasamontañas chiquito para hacerse fotografiar? Tenéis que entenderlo. Tiene hijos, si no lleva alguna cosa a lo mejor lo echan…

Geometrie non euclidee

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un nuovo week end post-porno e vegan ad Ada-lab!

foto di Simona Pamp, courtesy Le ragazze del porno

foto di Simona Pamp, courtesy Le ragazze del porno

Dalla sera di venerdí 15 al pomeriggio di domenica 17 novembre ci incontriamo per sperimentare insieme i linguaggi del desiderio e le politiche del corpo, alla scoperta di forme non convenzionali di sessualitá.

PROGRAMMA

venerdí 15 sera
accoglienza, cena e visione collettiva di materiale postporno con discussione

sabato 16 mattina
laboratorio di poesia pratica – dire, fare, baciare: la via poetica alla realizzazione dei desideri
(confronto e sperimentazione su formati di scrittura finalizzati all’espressione erotica)

sabato 16 pomeriggio
laboratorio di contrasessualitá – forme collettive di piacere al di lá dell’eteronorma
(che cos’é l’amore queer? come riconoscerlo, alimentarlo, praticarlo? scopriamolo insieme attraverso il gioco)

sabato 16 sera
spazio libero di feedback delle esperienze della giornata, cena, preparazione Brunch Drag Cabaret

domenica 17
vegan brunch in drag (aperto al pubblico, gradito dresscode metamorfico F to M, M to F, F to F, M to M e chi piú ne ha piú ne metta)

**a proposito di aperture, nel laboratorio sono benvenuti i biomaschi

la quota di partecipazione è di 55 euro e comprende anche vitto e alloggio.
[ci sono dei letti ma non basteranno per tutte e tutti - e il modello acampada non ci dispiace (e non è cosí scomodo)]
se hai esigenze specifiche di alimentazione o sistemazione per la notte, faccelo sapere!

se avete dubbi o domande potete scrivere a
adalab@autoproduzioni.net

se invece volete iscrivervi al laboratorio, mandate una breve lettera di presentazione in cui spiegate perché vorreste partecipare.

gira voce che…

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sublevate

lei si chiama Nadia Granados, è una performer e attivista colombiana e su questo blog giá raccontammo di lei, in un articolo dedicato alla scena postporno del centro e sud America.

nei panni de La Fulminante, Nadia è una delle punte di diamante del postporno a livello mondiale.

con emozionato orgoglio posso annunciarvi che – se tutto va bene – presto sará in Italia, per presentare il suo cabaret esplosivo in un lubrico featuring con la scrivente.

questo è il primo video che abbiamo tradotto in italiano per presentarla a chi avrá il coraggio e la fortuna di conoscerla.
si chiama Schifo e sangue (anche di questo avevamo giá parlato) e la sua visione – come quella di tutti i video di questa artista – è riservata a menti adulte.

(per sapere dove, come e quando stay tuned)

Drag Freegan Cabaret

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Domenica 17 novembre il bruch della domenica, format consolidato nella programmazione di Ada Lab (spazio di ricerca polifunzionale a codice aperto che ha sede a Vicenza) ospiterá il

Drag freegan cabaret – mascherata degenere senza corone ne’ troni

calendario hotsquat

Il cabaret si propone come zona de-genderizzata e spazio di attraversamento collettivo nel quale, attraverso il travestimento e la sovversione poetica, demistificare e prendersi gioco dell’identitá imposta.

Benvenute piume, baffi, tacchi, parrucche e leather.

Sovvertiamo le convenzioni e codici di rappresentazione binaria maschile/femminile, immaginiamoci incategorizzabili almeno per un giorno, sabotiamo la guerra dei sessi. Facciamolo insieme!

 

Il brunch comincia alle 11 e chiude alle 16. Ci saranno proiezioni di corti, monologhi, reading e performance.

É gradita la mascherata (se ne hai porta e condividi trucchi e vestiti assurdi, ci serviranno ad allestire un dressing corner)

Be queer, be happy, be yourself and be amazing!

il Cabaret Fulminante in Italia!

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ce l’abbiamo fatta!

cabaret Fulminante

Una delle punte di diamante della scena post-porno mondiale per la prima volta in Italia

CABARET FULMINANTE
domenica 24 novembre negli spazi del MenoMale
(via de’Pepoli 1/A, Bologna)

unica data italiana

Si chiama La Fulminante, al secolo Nadia Granados, e domenica 24 novembre alle 21.00 invaderà il palco del MenoMale con il suo cabaret, tradotto e presentato per l’occasione da Slavina.

Nata e cresciuta a Bogotá (Colombia), Nadia Granados è attiva nei circuiti della produzione artistica del suo paese fin dal 1997 e il suo lavoro ha risonanza internazionale dall’inizio degli anni 2000. Il suo percorso creativo è cominciato col muralismo per approdare alla video performance, in uno sviluppo multimediale spregiudicato del concetto di comunicazione visuale popolare.
La sua arte vuole essere politica e unisce all’erotismo come arma di trasgressione la critica sociale diretta, che identifica bersagli concreti nelle istituzioni della sua Colombia e del mondo. Sul piano estetico si appropria della pornografia penetrando i luoghi comuni della societá dell’informazione e giocando con l’immediatezza pletorica dello stile discorsivo rivoluzionario.
Nadia attraversa lo spazio pubblico (delle strade e della Rete) e lo stravolge, usando il suo corpo come catalizzatore di trasformazione e rivolta.

La Fulminante è il suo alter ego, il personaggio che l’ha fatta conoscere (grazie all’interessamento entusiasta di Beatriz Preciado) e affermare all’interno della scena della postpornografia internazionale. Il suo erotismo libertario mette in discussione l’erotismo della societá dei consumi, decostruisce l’immagine della donna iper-sessualizzata (fatta per vendere e istupidire) e crea un fantasma femminile che scuote dalle fondamenta le relazioni di potere capitaliste e patriarcali.

Scrive Slavina:
La colombiana Nadia Granados viene dal mondo dell’arte, e ne eccede ampiamente i margini ufficiali. Attraverso il progetto la Fulminante, nel quale un suo alter ego con parrucca bionda e tacchi alti utilizza i codici e gli stilemi piú beceri della pornografia tradizionale, la giovane artista lancia proclami femministi e anticapitalisti incendiari. Una comunicazione diretta che beffa la sua stessa semplicitá dall’interno: nei suoi video la Fulminante parla con una lingua inventata, che non esiste. È la lingua incomprensibile della donna oggetto che si reinventa come soggetto rivoluzionario.

Ed è proprio nella traduzione di Slavina – performer, videomaker, scrittrice e agit-prop del postporno che nasce in Italia con temporanee radici in Spagna – che arriva in Italia il Cabaret Fulminante: esperienza riservata a menti adulte di esplorazione di immaginari altri, di una sessualità che diventa politica, di una dissidenza beffarda dalla normalitá del regime eterosessuale, bianco, mercenario.
Un lavoro teatrale in cui il corpo è consapevolmente usato e autoabusato come mezzo di de-costruzione e ri-costruzione di nuove identità possibili, in cui il privato per eccellezza diventa strumento di condivisione orizzontale, critica, lotta.

Una visione d’avanguardia riservata a menti adulte
Domenica 24 novembre ore 21.00
Menomale (via de’ Pepoli 1/A) Bologna

per informazioni: 349/5824266
donnoli.maria@gmail.com

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